martedì 13 marzo 2012

54

Lo aspetti dietro l'angolo, schiacciato nel vano di un portone di una casa fatiscente, sfitta, vuota. Nell'ombra del lampione. La puzza di vomito
è quasi insopportabile. Quasi. Passano un paio di disgraziati, barcollanti, che ti guardano appena di striscio e tirano dritto, perchè c'è
qualcosa nei tuoi occhi che dice loro di tirar dritto.

Lo aspetti dietro l'angolo, per ore. Ma tanto passerà, deve passare di lì. E se non è oggi è domani, ma magari è oggi.

L'Opinel è più che sufficiente, non servono pistole, lui non sarà armato, e sarà una sorpresa, come dire. E poi, non vuoi ucciderlo, sarebbe
troppo poco.

E' un posto di merda, assi alle finestre, intonaco sparpagliato sul marciapiede. Merda di topo. Squallore, non c'è altro termine.

Non sopporti lo squallore. L'onesta miseria, la siccità, il lavoro duro, piccone e badile e sudore. Ma non lo squallore, non il lasciare andare
le cose. Può, in questo cazzo di vicolo, non entrare mai il sole. Può. E non ci puoi fare niente. Ma questo giustifica l'assenza di piante, non
la presenza delle merde di cane.

Però importa poco, sei schiacciato contro quel portone irto d'assi, è lì che devi stare, che devi stare, e lì stai. E aspetti.

E arriva, alla fine. Arriva lungo la strada principale, passo lungo, spalle larghe, in un caleidoscopio di luce, ombra, insegna viola, ombra,
insegna azzurra lampeggiante, lampione. Oh, bello, dignitoso, ben vestito. Molto ben vestito. Scommetto che non puzza di vomito. Dove passa lui
ci sono anche degli alberi, pensa un po'. Addirittura degli alberi lungo il marciapiede. Capelli biondi, occhi azzurri disperati. Ma chi fa caso,
chi vuole far caso, alla disperazione? Però tutto il suo corpo, tutti i suoi movimenti, dicono che è un re. Le sue sete color panna, le sue
scarpe lucide, il passo sicuro, il mento imperioso. Il piede che si pianta a terra, senza fretta, pirma che l'altro lo segua. Le spalle, larghe,
che ondeggiano nè troppo nè troppo poco, non sono una checca ma neppure un ragioniere. Il respiro lento e uguale, un leggero sorriso sulle labbra
che non tocca gli occhi. Disperati.

Esco in un baleno, braccio attorno alla gola, lo trascino nel vicolo, nel vomito. Coltello appena appoggiato al collo.

"Allora, amico mio, re che non sei altro, credi che io sia qui per prenderti qualcosa, fosse anche la tua vita? No, sono qui per darti qualcosa.
Il coltello? Non farci caso, serve solo a non farti gridare. Ti propongo un patto, amico mio che non conosco. Tu ti muovi come Alessandro Magno,
e hai gli occhi di uno schiavo. Chi sei? Vogliamo deciderlo? Ora, qui ci sono mille euro. La miseria di mille euro. Puoi prenderli e andartene,
oppure buttarli lì nel vomito e andartene. Fai quel che vuoi, sei libero. Vai, cazzo!"

Non li ha buttati.

Non li ha buttati, li ha tenuti.

Ma le spalle erano meno larghe e il passo meno imperioso, visto da dietro, mentre se ne andava comunque lento e fintamente dignitoso.

Non sono meno di un re, e un re non è meglio di me. Solo, sembriamo diversi.

E la dignità e il bisogno sono le due facce della moneta. Se cade testa, puoi essere dignitoso, se cade croce non te lo puoi permettere. Oppure
te lo permetti, e muori.

(E morire, detto fra noi, non ha mai migliorato la qualità della vita di nessuno. Però, a volte, si ha l'impressione che non la peggiori neppure,
nevvero?)

Il senso è che tu, re, hai accettato l'umiliazione. Non serve più ucciderti. Sei già morto. Quello che eri, non sei più. Cammini ancora, e magari
rimani proprio uguale al ritratto sopra il caminetto. Ma la prossima volta sarai tu, quello schiacciato nel vano del portone. Ad aspettare un
altro re.

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