martedì 13 marzo 2012

56

Immagino il tuono ruggente di mille botti che rotolano giù per un vicolo impervio con pietra su tre lati e stelle sul quarto, e saltano e sbattono e vanno sempre più veloci e qualcuna si schianta sul pilastro di un portone, sul cantone di una casa, e il vino ruscella assieme al tuono, e il vicolo non finisce mai, e le botti corrono, corrono, e le finestre si accendono, tardi, perchè il tuono è passato oltre, bocche nere rotonde in facce bianche rotonde sopra la strada rossa, la strada che ha visto il tuono passare, il tuono che rotola avanti, qualcuno lo insegue qualcuno grida qualcuno scappa, non cambia nulla, non ha importanza, non si può fermare non si può deviare non si può toccare, finchè il vicolo infinito finisce contro un muro e il tuono lo raggiunge e lo sparpaglia e si sparpaglia in un'onda di vino rosso e mattoni e il suono tutt'a un tratto smette e le lapidi dietro al muro sembrano grondare sangue silenzioso, e lo sembreranno fino alla prima pioggia, e le nuvole già si raccolgono, e la gente arriva in processione, cauta, bisbiglia, occhieggia, e da lontano, da molto lontano, sembra di sentire l'impressione, la fantasia, di un altro tuono, e tutti se ne vanno, le case si spengono, cadono le prime gocce dal cielo.

55

E' carina quella cosa dello scrigno pieno d'oro alla base dell'arcobaleno. Voglio dire, nessuno (beh, quasi nessuno) è così idiota o sprovveduto
da non sapere che un arcobaleno è solo un punto di vista, tuo, e che se ti sposti si sposta anche lui. E anche se uno fosse così idiota, dopo
averci provato qualche volta se ne renderebbe conto, no? Credo che neanche un bradipo metterebbe la zampa sul fuoco per la seconda (o la terza,
ok) volta di fila.

Però è carina. E' l'immaginarsi che esista, e non il trovarlo.

E non so, non so davvero, se la cosa più importante sia l'immaginarlo, il poterlo immaginare, o se invece il punto sia il non trovarlo, sapere
che non c'è.

Il pio bove, l'uomo piccolo, che sorride, che apparentemente non immagina, che è soddisfatto, o meglio che non si rende neppure conto di essere
soddisfatto, di quel che è, l'uomo che mette due euro nella macchinetta, sapendo che non vincerà, e sapendo che non ne metterà mai tre, l'uomo
che ti dice cose sul Milan, sulle fasi lunari in funzione del taglio degli alberi o del piantare l'insalata, l'uomo che fa tutte le stesse cose
negli stessi giorni, una per una, ordinate, e purtuttavia l'uomo che sorride. L'uomo che non vuole, e sorride. E io mi chiedo, ogni volta, cosa
cazzo succede nella sua testa? Sorride davvero, sta bene davvero con se stesso, o il suo sorriso è una frase fatta, l'equivalente di un
"buongiorno" educatamente espresso? Un sorriso pavloviano?

Fischietta, cazzo, da solo in una sera gelida, in un vicolo buio di un paese di pietra. Sei zoppo, vecchio, brutto, malato, solo, fa freddo, e
fischietti? Stai prendendo per il culo il mondo, o te stesso?

E chi invece lo cerca, quel cazzo di scrigno, chi lo cerca è migliore? Sapendo di non poterlo trovare, dico.

Non so, non so.

Io non credo più ai sorrisi della gente, non credo più che l'esposizione degli incisivi implichi qualcosa di più di un mero moto istintivo. E il
sorriso è solo una metafora, perchè lo stesso si può dire, solo in maniera più complessa, di tutti i ragionamenti e le autogiustificazioni, di
ore e ore di spam verbale, roba che si potrebbe scrivere in anticipo e poi far recitare senza che nessuno abbia nemmeno letto il copione. E senza
scostarsene, tuttavia, neppure di una virgola. Tanto è sempre il solito, fottuto gioco, diceva la tipa, no?

Beh, in buona sostanza, lo cerchiamo, questo scrigno d'oro, rassegnati a non trovarlo mai, o ci rassegnamo a non trovarlo, e fingiamo serenità? O
qualcuno è davvero sereno?

Io non capisco la gente. Non capisco quasi nessuno, e quelli che capisco li capisco per un decimo, forse. Vedo alieni attorno a me. Non è, Kirk,
che mi potresti riportare su?

(Oh, io lo cerco, comunque. Da qualche parte l'arcobaleno deve finire).

54

Lo aspetti dietro l'angolo, schiacciato nel vano di un portone di una casa fatiscente, sfitta, vuota. Nell'ombra del lampione. La puzza di vomito
è quasi insopportabile. Quasi. Passano un paio di disgraziati, barcollanti, che ti guardano appena di striscio e tirano dritto, perchè c'è
qualcosa nei tuoi occhi che dice loro di tirar dritto.

Lo aspetti dietro l'angolo, per ore. Ma tanto passerà, deve passare di lì. E se non è oggi è domani, ma magari è oggi.

L'Opinel è più che sufficiente, non servono pistole, lui non sarà armato, e sarà una sorpresa, come dire. E poi, non vuoi ucciderlo, sarebbe
troppo poco.

E' un posto di merda, assi alle finestre, intonaco sparpagliato sul marciapiede. Merda di topo. Squallore, non c'è altro termine.

Non sopporti lo squallore. L'onesta miseria, la siccità, il lavoro duro, piccone e badile e sudore. Ma non lo squallore, non il lasciare andare
le cose. Può, in questo cazzo di vicolo, non entrare mai il sole. Può. E non ci puoi fare niente. Ma questo giustifica l'assenza di piante, non
la presenza delle merde di cane.

Però importa poco, sei schiacciato contro quel portone irto d'assi, è lì che devi stare, che devi stare, e lì stai. E aspetti.

E arriva, alla fine. Arriva lungo la strada principale, passo lungo, spalle larghe, in un caleidoscopio di luce, ombra, insegna viola, ombra,
insegna azzurra lampeggiante, lampione. Oh, bello, dignitoso, ben vestito. Molto ben vestito. Scommetto che non puzza di vomito. Dove passa lui
ci sono anche degli alberi, pensa un po'. Addirittura degli alberi lungo il marciapiede. Capelli biondi, occhi azzurri disperati. Ma chi fa caso,
chi vuole far caso, alla disperazione? Però tutto il suo corpo, tutti i suoi movimenti, dicono che è un re. Le sue sete color panna, le sue
scarpe lucide, il passo sicuro, il mento imperioso. Il piede che si pianta a terra, senza fretta, pirma che l'altro lo segua. Le spalle, larghe,
che ondeggiano nè troppo nè troppo poco, non sono una checca ma neppure un ragioniere. Il respiro lento e uguale, un leggero sorriso sulle labbra
che non tocca gli occhi. Disperati.

Esco in un baleno, braccio attorno alla gola, lo trascino nel vicolo, nel vomito. Coltello appena appoggiato al collo.

"Allora, amico mio, re che non sei altro, credi che io sia qui per prenderti qualcosa, fosse anche la tua vita? No, sono qui per darti qualcosa.
Il coltello? Non farci caso, serve solo a non farti gridare. Ti propongo un patto, amico mio che non conosco. Tu ti muovi come Alessandro Magno,
e hai gli occhi di uno schiavo. Chi sei? Vogliamo deciderlo? Ora, qui ci sono mille euro. La miseria di mille euro. Puoi prenderli e andartene,
oppure buttarli lì nel vomito e andartene. Fai quel che vuoi, sei libero. Vai, cazzo!"

Non li ha buttati.

Non li ha buttati, li ha tenuti.

Ma le spalle erano meno larghe e il passo meno imperioso, visto da dietro, mentre se ne andava comunque lento e fintamente dignitoso.

Non sono meno di un re, e un re non è meglio di me. Solo, sembriamo diversi.

E la dignità e il bisogno sono le due facce della moneta. Se cade testa, puoi essere dignitoso, se cade croce non te lo puoi permettere. Oppure
te lo permetti, e muori.

(E morire, detto fra noi, non ha mai migliorato la qualità della vita di nessuno. Però, a volte, si ha l'impressione che non la peggiori neppure,
nevvero?)

Il senso è che tu, re, hai accettato l'umiliazione. Non serve più ucciderti. Sei già morto. Quello che eri, non sei più. Cammini ancora, e magari
rimani proprio uguale al ritratto sopra il caminetto. Ma la prossima volta sarai tu, quello schiacciato nel vano del portone. Ad aspettare un
altro re.

53

Sera stanca, freddo. Buio, grandi case, faccio fatica a camminare. E' bizzarro, sul marciapiede piano e regolare i miei passi sono irregolari,
nel bosco cammino come se fossi uno normale sul marciapiede. Ma ora non sono nel bosco. Una lunga strada (no, in realtà non è lunga, è quasi un
vicolo). Non so dove sono, in che città sono, ma, come si dice, se non ti importa di dove sei, non ti sei perso. L'insegna al neon dice EnnE2.
Beh, entro, da qualche parte mi dovrò fermare. Non posso camminare per sempre, o magari posso, ma non voglio, e poi chi se ne frega, beviamoci
qualcosa.

Posto strano. Cioè, non strano, diciamo inatteso, inaspettato. Un banco davanti, e fin qui tutto regolare, una decina di spine di birra e anche
questo non è insolito (manca il sidro alla spina, ma dove, in Italia, non manca?). Solo che il locale si ramifica in una serie di salette, ognuna
introdotta da un arco, e non c'è un solo, fottuto angolo retto, non nel soffitto, almeno, a pagarlo a peso d'oro. E gente, un mucchio di gente.

E c'è uno che parla, sopra l'equivalente di una cassetta di arance, e declama cose come: "l'intransigenza della bellezza fotte le anime deboli, e
la condiscendenza quelle forti." E c'è un tavolo vuoto, nonostante il locale sia pieno, c'è un tavolo vuoto con un bicchiere di vino sopra.

Ma non è questo il punto. Il punto è la gente. E neppure, il punto sono i miei occhi. Io so che la gente è normale. Solo che io la vedo diversa.
La tipa dietro al banco, quel pezzo di gnocca, le si allargano gli occhi fino a coprirle la faccia, quell'azzurro nebuloso degli zaffiri. Il
tizio che sta accanto a me al banco diventa un minotauro, _lo vedo_ come un minotauro, poco o niente di umano, spalle enormi e un viso che si
scioglie come una candela. Mi giro veloce, e devo appendermi al banco altimenti cado, e c'è una foresta di mostri attorno a me. Mostri, facce da
incubo, corpi deformi. E lo so che non è vero, e lo so che sto sentendo 'Round midnight, e lo so che sono qui adesso, ma lo so solo con un
pezzettino della mia testa. Quello che vedo sono solo mostri, quello che i miei occhi vedono, alieni, creature di un altro pianeta, niente che
sia possibile sulla terra. Fermami!
Poi viene un tizio lungo lungo, scuro scuro, chi cazzo sei? "Amico mio, bambino mio, non puoi gridare sulle poesie degli altri. Non perchè non
sia giusto, solo perchè non è educato. E l'educazione è ciò che ci impedisce di accoltellarci. Non è complicato da capire." Cosa cazzo me ne
frega? Ma mi hanno messo su un taxi, e mi sono risvegliato sullo zerbino, un po' dopo.

52

E trottola sul mondo.

Rotola.

Come un opale di fiamma, colori cangianti.

Come un opale, tondo.

Così non ti rompi. Rotolando. O rotoli non rompendoti, non so.

E son di significato anche i colori.

Se cambiano, cambi. Se rimangono, resti.

Non so, non so, non so.

[Una camera buia, quella nella tua testa. Vale inventarsi colori? C'è gioia? C'è senso? Da lì comunque non esci.]

Il grigio del mondo, come una piccola onda di un mare morto e fottuto, ti entra negli occhi, occhi che tu non puoi che tenere aperti.
Sdraiato sul bagnasciuga, la piccola onda ti copre. Ti copre gli occhi.

Inventati colori, coglione.

Tu inventi, il mare fa. Il mare grigio.

E questa volta non ci metto neppure i gabbiani, perchè parlo di cose _dentro_ la testa, non fuori.

[Una camera buia. La tua testa. La tua gabbia. Lì i colori non ci sono. Li inventi. E lo sai, porca puzzola, lo sai].

Una camera buia. Quando passava il treno vedevo il parquet, alla sua luce. Ma ero bimbo. Adesso russerei, immagino.

51

quello che importa, quello che davvero è importante, è leggere nella mente della gente. è l'unica cosa interessante.

e quello che la gente vuole, è che tu legga quello che loro pensano di loro.

solo che non funziona così.

se leggi nella mente della gente, leggi quello che c'è, non quello che loro vorrebbero ci fosse.

e lì son cazzi, come dire.

se qualcuno è qui, e se bizzarramente desiderasse un consiglio, beh, guarda pure, gli direi, nella testa degli altri, anche se fa un mucchio di male, è una stronzata, e non fa altro che incasinarti la vita. guardaci, perchè è l'unico modo che hai per vivere.

ma non dire mai, non dire mai, a loro, quello che hai visto.

non te lo perdonerebbero.

50

Grida di gabbiani, come grida d'aiuto di un bambino,

sopra vecchi, vecchi muri di pietra.

E sopra i vecchi, vecchi muri di pietra,

coltelli, nelle mani di bambini.

Come grida d'aiuto.

Davanti, come sempre, il mare.

49

I coltelli. I coltelli tagliano. Sono _fatti_ per tagliare.

Sera.

Giornata di merda, nel momento sbagliato della vita. Ma non rischi, no, sei ancora responsabile. E' una sera da bere, è una sera da bere parecchio, ma non lo fai in giro per il mondo.

Non lo fai perchè un anno senza patente sarebbe, semplicemente, il colpo di grazia. Niente appigli per poter risalire.

Bevi, vero, ma nel bar a duecento metri da casa tua. Solo una strada, per arrivarci, e non arriva da nessun'altra parte. Sembra sicuro. Strada in salita, al ritorno, ecco perchè la macchina.

Ci sono un paio di famiglie di nordafricani, all'inizio della strada. Con una decina, beh, no, saranno cinque o sei, di cloni come figli. Voglio dire, un metro scarso, tutti esattamente uguali (o indistinguibili per me, sarà l'etilismo), tutti montati su biciclette da puffi, che sbucano, ridendo, a tutta velocità, da ogni dove. Si rincorrono, giocano, sono bellissimi.
Il primo lo schivo, freno, mi fermo, il secondo mi schiva lui, il terzo mi arriva contro la portiera. E, beh, siamo in un paese, c'è sempre qualcuno che passa la vita guardando dalla finestra. Quei visi appassiti, o larghi da rospo, quei visi che vedi solo appesi là, a metà altezza di una casa. Quei visi che non hanno una persona dietro.

Forse solo il tempo di scendere, disperato, dalla macchina e inginocchiarmi vicino al bimbo, e sono già lì, i carabinieri.

Documenti, alcoltest. Solo poi, ambulanza. Stronzi. Ma l'ho già visto, ai tempi dei miei amici e dell'ero. _Prima_ la polizia, _poi_ l'ambulanza, per via che tossici e nordafricani non è che ci dispiaccia se muoiono, mentre invece le statistiche sugli arresti a qualcosa servono.

Fra la prima soffiata e la seconda, mi vien da chiedermi cosa esattamente ho da perdere.

L'opinel si apre con due mani, con una e in tasca è difficile, ma tanto nessuno mi sta guardando. E nessuno si aspetta niente.

Il manico contro il palmo, la lama appoggiata di rovescio al polso. Due, leggeri, movimenti, due gole tagliate.

Cosa faccio adesso? Niente.

Cioè, non è vero. Non è vero che non faccio niente. Torno ad inginocchiarmi, e a cercare di consolare il bambino che piange. Mi inginocchio in tutto quel sangue. E si fottano i pantaloni.

I coltelli sono _fatti_ per tagliare.

48

Una vecchia cammina nel bosco, sul sentiero. Un'arcata di faggi rossi sopra la testa, il sole al tramonto che l'attraversa d'infilata, rosso, dritto negli occhi. La cesta in mano, qualche fungo, capelli bianchi, pochi, legati alla nuca, grembiule ricamato sopra la gonna nera. Un bastone di frassino, e le dita che sembrano radici abbarbicate sopra. Spezzate, crepate, vecchie.

Quello è il posto da cui passa tutti i giorni. Quello è il posto dove il suo amore, una vita prima, è morto. In autunno. E in quel momento il sole si spegne dietro la montagna.

E in quel momento c'è lui, compare lui, seduto sul sasso su cui sedeva, di fianco al sentiero. Fra l'abbaglio del sole e l'improvvisa oscurità, però c'è.

Seduto proprio lì, nel bosco in cui è morto, a sedici anni, splendente com'era a sedici anni.

Alza gli, gli occhi azzurri sotto la frangia scura dei capelli. E la guarda.

E sono i suoi occhi, gli occhi dell'amore dei suoi sedici anni. Uguali, proprio gli stessi.

E le dice:
"Chi sei, vecchia?"

47

E le giornate filano lisce, senza nome, senza memoria.

I giorni del bosco, i giorni dell'automobile, non importa.

Passano, viene notte, ti alzi che è notte, e non importa.

La paura, e la morte, le tieni a bada. Ci sono i modi.

Qualche volta suoni le corde della chitarra o delle parole.

E neanche questo importa, perchè si cancella nel giorno dopo.

Nessuno mi ha promesso di più. Solo, ci speravo.

46

Il re si sveglia, di soprassalto, nella sua tenda. La logica interpretazione della battaglia a venire è lì, precisa, nella sua mente, portata dalla lucidità della notte, del sogno. Dove posizionare le ali, chi deve essere al centro e chi al fianco destro, e quando, di preciso, la cavalleria interverrà sul sinistro. Una vittoria scontata. E poi avanti, verso l'India. Contro gli elefanti, fino al mare.

Ma, perdio, questa non è una tenda! Sassi, ben incastrati, sopra di me. Attendente! Attendente! Io sono il re, dov'è il mio stato maggiore?

Barone, lei non è re.

Lei è un barone assediato in un fottuto foruncolo su un dosso rumeno, buone mura, solide, certo, ma vogliamo parlare dell'esercito fuori?

Un barone, va bene. Ma perchè un barone non può, non potrebbe, vincere una guerra? Ho già in mente tutto. Le scorte ci basteranno per un anno, che è di più di quello che gli assedianti possano reggere. Le mura sono solide, non le abbatteranno. E abbiamo parecchie uscite segrete da cui punzecchiarli, finchè saranno stufi di morire nella notte, o per fame.

Idiota, lei non è neppure un barone. Lo vede il soffitto?

Un idiota, va bene. Il soffitto è intonacato, e tu sei una fottuta infermiera. E questo è un ospedale, ed io non sono nè re nè barone, e non sto combattendo nessuna guerra. Eppure, cazzo, eppure posso vincere. Posizionando al meglio la cavalleria che non ho. Oppure posso perdere.
Tu non l'hai, questa opzione. E sai perchè non l'hai? Primo, perchè non sai che esiste, e secondo perchè, comunque, non la vuoi.

45

Lo chiamo "El teorema del pitardel".

Pitardel è il pettirosso, per via del verso che fa quando segna il suo confine, simile ad uno schiocco, ad un piccolo petardo.

E' bello, il canto del pitardel. Ti viene voglia di prenderlo, il pitardel, e di metterlo in gabbia, in modo di goderti il suo canto tutto l'anno.

Ma, certo, c'è il problema che un pettirosso vuole volare, essere libero nel cielo, non avere sbarre nè confini. Un uccello che vola nel cielo è il massimo della libertà, giusto? E rinchiuderlo per egoismo, per sentirlo cantare, è qualcosa per cui qualunque dio si sentirebbe in dovere di FULMINARTI con un FULMINE! Voglio dire, stai violentando un simbolo, cazzo!

Beh, sono stronzate. All'atto pratico, quel che vuole il pettirosso è cibo, sicurezza dai predatori, e, al limite, trombare, nei tempi e nei modi convenuti. A lui, di volare nel cielo per fungere da simbolo di libertà per quel tacchino senz'ali che è l'uomo, non gliene potrebbe fregare di meno. Soprattutto considerando che lì di fuori, mentre voli simbolicamente contro il sole, c'è chi, altrettanto simbolicamente, ti mangia. Simbolicamente per noi, s'intende (la Natura, crudele ma giusta...), un attimino più realisticamente per lui (cazzo, mi stanno mangiando!). Le sbarre non tengono dentro lui, tengono fuori gli sparvieri, come dire.

Ma poi neanche questo è vero. Se il pitardel voglia qualcosa, e cosa poi sia questo qualcosa eventuale, sono menate d'uccello (in un paio di sensi) che ci facciamo noi.

No, il problema c'è, ma è un altro.

Il problema è che quell'elusivo elfo dei boschi, che ti delizia col suo fischiettare, se ce l'hai in gabbia scopri che, in controtendenza con l'entropia, sembra cagare un volume maggiore di merda rispetto al cibo che inghiotte. Ok, ok, ogni tanto canta. Ma _tu_, ogni giorno, sgombri merda d'uccello. Il che, se sei sano di mente, ti fa apprezzare l'occasionale canto ascoltato nel bosco, e che poi caghi dove cazzo vuole.

E per l'anima, lo spirito, come cazzo vuoi chiamarlo, il canto del pitardel di una persona, vale la stessa legge. Certo, se metti l'anima fra le sbarre scrivi più cose sul blog. Magari esce anche della poesia, qualche volta. Solo, spali un mucchio di merda, tutti i giorni, sempre.

Il teorema del pitardel: se devi cantare, farai più merda che canti. E se i canti e la merda sono tuoi, preparati a sbadilare più di quanto tu ti debba preparare a lusingarti.

Ohi! E' vero!

44

Una signora. Una vecchia signora. Magra, molto magra, e vecchia, molto vecchia. Abiti grigi, lisi. Cammina nel centro opulento di marmi di un'opulenta città.

Cammina, sì, con passo incerto, lento, ma dritta come una freccia. Le spalle larghe, la testa alta, lo sguardo dritto avanti, uno sguardo che non incontra gli occhi di nessuno.

In mano, nella mano destra, un bicchiere di plastica con giù qualche decina di centesimi.

Non chiede, e non ringrazia. Gli occhi non si spostano dall'orizzonte, il passo non rallenta.

Ha cancellato anche la vergogna del mendicare, o almeno l'ha addomesticata.

C'è altro che possa fare, se vuole vivere? Vivere con se stessa? C'è altro che possa fare, se non fingere di non chiedere, e non ringraziare?

Elemosinare con la testa alta, sono cazzi. Non mi viene in mente niente di peggio. _Doverlo_ fare.

Ho svuotato tutta la mia moneta nel bicchiere, senza che il suo sguardo si sia spostato di un centesimo di grado, o il passo abbia rallentato di un millisecondo. E avrei svuotato anche tutta la carta del mio portafoglio, se avessi pensato che sarebbe arrivata a casa con lei, e non a casa di un altro disperato.

Ecco, queste sono le cose di cui mi sento colpevole.

Non posso fare tutto, e perciò non faccio niente.

(Ma non ho ancora trovato uno scudo, una difesa, qualcosa che tenga la disperazione altrui lontana da me. Statemi fuori dai coglioni, fuori dalla mia testa, cazzo! Non posso fare niente, sono inutile, tutto quello che posso fare è sognarvi ogni fottuta notte!)

43

Lisce, lunghe, lente dune, color albicocca, come i capelli di una bambina che, una volta, ho visto. Lisce, lunghe, sensuali dune. Senza fine. E sopra a tutto il vento, un vento costante, secco, bollente, che ti prosciuga ma non ti sfinisce. E il sole, su tutto.

(No. Alberi grandi, nel bosco umido, che sperano nell'autunno. Vampate di giallo dei faggi, sul fianco del monte, e i punti rossi dei ciliegi. Le betulle ancora aspettano, aspettano l'oro di un momento, poco più avanti. E i larici stanno pensando, ancora, alla breve estate passata).

Un leone, nel deserto? Si sarà perso? Color albicocca, anche lui, come le lente dune. Se si confonde nel colore, allora no, non si è perso, è nel suo posto. Cerca la carne rossa, ma la carne non è rossa, è del suo stesso colore. Difficile da vedere, difficile da trovare, più facile da annusare.

(No. L'aria è ferma, umida e fredda. La luce è poca, nel bosco, per questo l'orso è scuro. E neppure la carne che lui cerca è rossa, la carne nel bosco è scura come il bosco. Difficile da vedere, difficile da trovare, però più facile da annusare, nell'aria ferma, umida).

Al di là di una duna, oro. Cupole abbaglianti, enormi, una distesa di barbagli di sole. Una città, una città splendente d'oro. Un leone che guarda una città? Sottovento, forse, ma sei sopravvento, coglione.

(No. Si apre il bosco di faggi. Di là dalla radura, una collina, e sopra la collina un castello. Sei nel posto degli uomini, e l'aria è ferma, coglione).

Mastini, e poi cavalieri d'oro, con le lance splendenti. E il figlio del macellaio che prende la tua pelle, che farà da scendiletto al re.

(No. uomini vestiti di scuro, e quadrelli di balestra. E i tuoi filetti serviti a un pranzo qualsiasi del signore).

Uccisore di pecore o di capre, cosa cambia?

Ferocia o impotenza, cosa cambia?

Chi vince o chi perde, cosa cambia?

Oro, ossidiana, cosa cambia?

Si vive e si muore, _questo_ non cambia.

42

L'anima perfetta, la perfetta dirittura.

-Entri l'imputato-

-Eccomi, Vostro Onore-

-Lei è accusato di storture dell'anima, di deviazioni dai princìpi, di azioni apparentemente casuali, di deroghe arbitrarie dagli assoluti.

Come si dichiara, colpevole o innocente?-

-Non capisco l'accusa, Vostro Onore-

-Vedrò di essere più chiaro. Lei ha dichiarato più volte di aderire, anima e corpo, a determinate direttive morali, salvo poi, in più occasioni documentate, violare bellamente le sue proprie regole etiche. Il giudizio chiama in causa la coerenza, e l'onestà. Lei ritiene di essere stato coerente e onesto? E' più chiaro così?-

-Ancora non capisco l'accusa. Non si può accusare un essere umano di incoerenza, visto che se fa ciò che fa, lo fa perchè è ciò che è, e nulla può essere più coerente di così. E l'onestà, beh, è una cosa a cui siamo chiamati davanti a noi stessi, non davanti ad altri-

-Quindi lei dice che il dichiarare una cosa e farne poi un'altra non è disonesto, perchè è lei l'unico giudice, e anche perchè così doveva fare, essendo quel che è? Parrebbe una cazzata, così a primo acchito-

-Sì, Vostro Onore, parrebbe una cazzata. Ma noi viviamo in un mondo che si muove in avanti, in direzioni casuali. E i grandi princìpi valgono solo nelle situazioni previste. Però quel che succede è sempre, sempre diverso da quello che prevedevamo. Tutte le regole etiche devono essere elastiche, per adattarsi a quel che non pensavamo potesse succedere. E' poi questo che significa vivere, no?-

-Elasticità delle regole etiche...Ecco un concetto interessante. Un'etica elastica _non_ è un'etica, e su questo non credo si possa discutere. Un fondamento elastico non regge nessuna costruzione-

-Ancora sì, Vostro Onore. E' certamente vero quel che dice. Ma c'è una pietra dura, sotto il fondamento. L'etica, di cui lei parla, si dovrebbe appoggiare su quella pietra, e quella sola dovrebbe essere inamovibile. L'etica è solo una meta-etica, che si basa sul principio di diminuire il male nel mondo. Quella è la base, e se in virtù di quella base dobbiamo essere incoerenti e disonesti, quella è la cosa giusta da fare-

-Capisco, imputato. E allora cambierò la domanda. Lei è accusato di avere aumentato il male nel mondo. Come si dichiara, colpevole o innocente?-

-Colpevole, Vostro Onore. Per distrazione, per pigrizia, per taccagneria. Per miserabilità. Non per cattiveria, però, credo. Sì, ho aumentato il dolore nel mondo, e ci penso da solo, a punirmi per questo-

-NON BASTA!-

41

-Vieni con me, dolce amico- mi dice la signora vestita di nero.

(O preferite una bambina bionda dai grandi occhi innocenti? Io la vedo così, ma stride un attimino con l'iconografia tradizionale...)

-Vieni con me, dolce amico. La strada è breve, il riposo vicino. E' tanto tempo, non è vero? che non riposi. Che non metti la tua testa su un cuscino, il tuo cuore in un luogo sicuro, la tua mente nella nebbia del sonno senza sogni. Sei stanco, dolce amico. Vieni con me, a riposare, finalmente.-

-Sì, signora, sono stanco. Tanto, tanto stanco. Non sono quasi più capace di mettere un piede davanti all'altro, in questa lunga marcia. Vorrei davvero riposare. E' solo che non posso, e che metterò ancora un piede davanti all'altro, finchè il "quasi" non diventerà un "del tutto". Camminerò ancora, signora, finchè non mi marciranno i piedi, finchè non mi cadranno gli occhi, finchè non mi scomparirà la mente. Camminerò, al freddo come al caldo, camminerò per quante salite ci siano, camminerò, ancora e ancora. Senza arrivare da nessuna parte, lo so, e senza nessun motivo di farlo. Ma camminerò. Io non mi fermo. Se mi vuoi fermare, signora, devi venire tu a prendermi. Non chiedermi perchè, signora, io non so perchè. E' questa la mia forza, io non so perchè. Lo faccio e basta. Tu non hai perchè, e non ne ho io. Ma, finora, io cammino e tu segui. E io non mi fermo, signora, non mi fermo, e vediamo chi ha più fiato.-

40

Cinzia, fane do bianchi e 'n misto. E senti, Biondo, gat 'n ment el Bepi Cioldo, de Stramentiz?

Mmno?

Dai, 'l Bepi mbriaghela, quel sempre ont, quel che 'l se cichetava meza boza de sgnapa prima de colazion...

A ospio, 'l Bepi tes! Sì, sì, 'l go 'n ment.

Ben, l'è mort.

Ma vara ti ale volte.

Sì ma no l'è quel el problema. El problema l'ei che l'ha lasà dit de cremarlo.

E?

Dio lupo, se ghe volù trei dì, per smorzarlo!

39

E diciamo che una notte, nel bosco della sua testa, il nostro eroe si è perso. E non aveva neanche poi tutti questi capelli, ma, tutto sommato, ne basta uno, per girarci attorno tutta la vita, no?

Diciamo che si è perso. E diciamo anche che quella stronzata che se non ti importa di dove sei non puoi esserti perso è, appunto, una stronzata. Nel senso che il perdersi non ha niente a che fare con i luoghi. Non è che ti perdi quando non sai più dove sei. Ti perdi quando non sai più dove ti sei lasciato. Non quando non ritrovi il posto, quando non ritrovi te stesso.

E non posso dire come ho passato questi giorni, perchè, beh, perchè non si fa, di dire certe cose, a certe persone, e la prossima volta sarò più lucido nello scegliere chi legga il mio blog. Ma vabbè, la prossima volta non è questa.

Diciamo che il nostro eroe si è perso, nel senso che non si ritrova. Nel senso che la nebbia non si schiarisce. Nel senso che qualcosa si è, definitivamente, rotto. Spezzato.

E allora cosa cazzo devo fare? Su quale monte devo scappare, e perchè?

Cioè, il concetto è che non posso chiedere aiuto, perchè il chiederlo vanificherebbe l'aiuto. Della serie, merda nera.

Si, vabbè. Ma correre giù per una collina, sempre più veloce, e poi aprire le ali, le fottute ali, e volare. E volare sul mondo. Sul mondo da vivere.

(L'ho scritto solo per non sembrare troppo lagnoso, non è che io voli. Nemmeno quanto vola il tacchino. Dio, nemmeno quanto vola un facchino, per dire)

(Però, come diceva quel tizio, tutti possono volare. Per quanto in una sola direzione...)

38

Non mi ricordo il suo nome. Lo chiamavo il conte, perchè aveva un modo di porsi distaccato, quasi nobile, qualunque cosa facesse e comunque fosse vestito. Sembrava sempre padrone di sè e del circondario, come dire. Frequentava il terzo o quarto anno di una classe dello scientifico, una classe che bazzicavo anch'io, nonostante tecnicamente frequentassi, beh, quasi sempre, il liceo classico dei preti lì a fianco. Orfano di padre, lui. Un giorno si è tagliato il collo, da sinistra a destra, a pranzo, davanti a sua madre e a sua sorella. Con il coltello da bistecca. Sul tavolo. Il conte.

Quest'altro, beh, ricordo il suo nome, ma non vi interessa. L'unico uomo che io abbia baciato. Era una sera strana, mi ha beccato che stavo baciando la sua ragazza, e in un qualche modo dovevo spiegargli che non era importante, che si poteva fare, anche per amicizia. Ohi, non mi è venuto in mente altro, ok? Comunque, ha funzionato. Aveva gli occhi come due scudi, acciaio. Volevo davvero passargli quel libro di Dick, quello che Dick dice essere il suo libro più bello, perchè si faceva, di ero. Pensavo che avrebbe potuto essergli d'aiuto, ma è morto, prima, di overdose.

E poi questa ragazza. Sorella di un mio amico della classe dello scientifico di cui sopra. Abbiamo avuto una specie di storia. Niente di che, una settimana. Niente sesso, qualche bacio. L'ho portata in un posto che per me era magico, un laghetto tetro e scuro in fondo ad una valle, e lei ha pensato che la volessi uccidere. Lì. Sì, non era del tutto a piombo, come dire. Un po' di tempo dopo mi ha telefonato, a casa. Ha risposto mia madre, e io mi sono dato per disperso. Due giorni dopo ha preso la pistola di suo padre, è andata nella villetta in montagna, e si è sparata. Nella testa.

E poi volete che vi parli del Franz, la persona più meravigliosa che abbia calpestato questo mondo fottuto? O del Bidolli, il genio?

Morti, se ve lo chiedeste. Infarto e overdose.

Non è mica bello, passeggiare in questo mondo pieno di carne marcia. Voglio dire, perchè cazzo sono io, quello vivo? A cosa servo?

37

L'orso. Ohi, è grosso! Pieno di peli, cattivo e feroce. Magari le zecche se le mangia, ma le pulci saltano. E non trova, lui, ma solo lui, di avere un cattivo odore, e comunque l'odore ce l'ha. Parecchio, ce n'ha.

L'orso. L'orso è marrone, e grosso. Imprevedibile. Non ha espressioni, non comunica. Animali solitari, non sociali. Voglio dire, non ha motivo di far vedere a nessuno quel che pensa, per via che sono solo cazzi suoi. Se non ti porta vantaggio che gli altri prevedano i tuoi comportamenti non c'è motivo di dichiararli, e se sei fuori dal sociale, se sei solo contro tutti, no, non ti porta vantaggio che gli altri prevedano. E' semplice, in sè: ti chiami fuori dall'esperimento, guardi, usi, te ne fotti, o non te ne fotti per nulla, soffri e godi, decidi e tagli, vivi non da re, ma da anarchico. Tu decidi per te, e tu decidi per gli altri, almeno per quel tanto che interagiscono con te.
Con bontà e giustizia? Forse. Sai com'è, se parli solo con te stesso, è possibile (cazzo! non certo. solo possibile!) che a forza di parlare da solo tu ti convinca di stronzate, come se tu fossi il venditore di folletto di te stesso. Possibile. Solo possibile, mica certo. Ma va bene. Se tu pensi una cosa, se tu pensi _davvero_ una cosa, son cazzi, se ti convinci che è sbagliata solo perchè te lo dicono gli altri. Chi saresti, allora? I desiderata del prossimo? Vorresti davvero essere quello che il primo coglione che passa _gradirebbe_ che tu fossi?

Che è poi quello che tendiamo a fare, tutti. Ma _tendiamo_ a farlo, cioè non necessariamente lo facciamo. Tendiamo ad essere graditi. Vero, e vergognoso. Abbiamo bisogno di coccole, come i cani, esempio non esattamente casuale di animale sociale.

Ma l'orso, dicevo, l'orso è asociale, l'orso è grosso e spaventoso. Il problema non è se lo vedi grande e spaventoso, no, quella è una cazzata. Scappi, o gli spari. Si risolve, e ci si fa anche uno stufato, a volte (è buono, l'orso, dicono).

Il problema è quando, dietro alle zanne e agli artigli, vedi il batuffolo di peli con gli occhi spalancati su un mondo impossibile, vedi il cucciolo, vedi ciò che era. E non sei più capace di sparare.

E lui ti mangia.

36

Se tutto è ovvio, solito, quotidiano, beh, coglione, apri gli occhi.
Apri solo gli occhi, c'è meraviglia ovunque.
Il punto è che la forza che occorre per sollevare le palpebre è del tutto sproporzionata al loro peso. E che, di solito, non è forza che ci puoi mettere tu.
Oh vabbè, la meraviglia e io viviamo fianco a fianco. Ci salutiamo sul pianerottolo. Educatamente. Poi io vado a perdermi camminando nella pioggia uggiosa, nei campi di stoppie, e lei scatena turbini di vento sul mare.
Comunque, io _so_ che c'è, la meraviglia. Vivo nell'appartamento accanto, non potrei non saperlo, no?
Già. Ma a che serve?

35

I giorni scorrono lenti.

Scorrono lenti e uguali.

Come una fila di mattoni nel muro,

come giostra di cavalli a Natale.

Chiudere porte, aprire porte,

sempre tutto lo stesso,

un po' più di stanchezza,

di fatica, di peso,

un po' più di paura del vento.

Vento su cui si volava,

e giureresti che è ieri,

giuri che gli alberi amici

non ti hanno lasciato.
Da solo.

Ma la notte nel bosco è una merda,

una merda di cane bagnata.

Chiudere porte, aprire porte,

e calpestare merde di cane.

Non sento più gli alberi, no,

o forse loro non sentono me.

Siamo lontani, diversi,

dispersi, senza più fiato.

Loro son fermi, io striscio via,

e il senso di questo è andato perduto.

Vento, nevvero, dicevo?

Vento, che passa attraverso.

Vento che spettina i nervi.

Chiudere porte, aprire porte.

Ohi, qualche luce lontana si vede.

Lampade, senza parole,
case lontane, vuoto di notte.

Case non tue.

Aspettano, in quelle case.

Chiudere porte, aprire porte.

Già, non aspettano te.

Sei solo.

34

Quando la senti gridare.
Quando la senti sfasciare gli alberi, distruggere le persone.
Quando la senti sorgere come un ruggito nella savana, quando sparge sangue e interiora, quando fa male prima che tu muoia.
Quando è il disastro e la paura.
Quella, beh, quella non è la bestia. Quella è il guardiano. Che cerca di tenerla a bada.
La bestia è ferma, rapida, silenziosa, e ha la stessa dolcezza e compassione, e lo stesso coinvolgimento, del rasoio che usa.
La bestia, beh, vi auguro di non incontrarla mai, attorno a un fuoco, di notte. Silenziosa e dolce.
Anche perchè il giorno che la incontraste potreste essere da soli, come dire. Ma proprio da soli. Non voi e la bestia, voi e basta.
Calde notti d'estate, nevvero?

33

Gira l'angolo, stronzo!

Gira l'angolo!

Cazzo fai lì in mezzo alla piazza?

Vero, vero, hai dato la parola. Tu da lì non ti muovi finchè.

Ohi! La parola. L'hai data, vero, ma in un contesto. E adesso piovono pomodori. Pomodori piuttosto duri. Cominciano a somigliare a cubetti di porfido, questi pomodori marci.

Gira l'angolo, dio eterno!

Gira l'angolo, e tira il fiato. Appoggiati con le spalle ai mattoni e fai dieci buoni respiri. Fondi. Riprendi il controllo, tira i muscoli degli avanbracci, delle spalle, guardati attorno con aria feroce, esci dall'angolo, e giralo di nuovo.

E ti ritrovi di nuovo lì, sul punto di girare l'angolo. Una trottola, dio polveroso, una trottola.

Se un dio ci fosse, se solo un dio ci fosse, gli rimprovererei la mancanza di fantasia. Il che, converrete, è una mancanza non da poco, in un dio.

Vita di merda? Vita di merda.

32

Che poi io ci vedo qualcosa di profondamente ingiusto, nell'aracnofobia. Mi sembra una carognata essere fobici nei confronti di qualcosa che c'è in tutto il mondo. Voglio dire, non potevo essere, che so, cangurofobo? E avere due oceani fra me e quelle bestiacce?

31

Ehi! Come va? A me così così. E' un periodo strano. Dormo a lungo ma male, faccio sogni complicati ma banali, e mi sveglio di continuo, dimodochè spesso non so se sono nel dormiveglia, nel sogno, o nel vero. Anche ora che sono qui con te davanti ci sono attimi in cui ti guardo e non so chi sei, chi sono, cosa succede. Attimi, battito di ciglia, e tutto passa. Lo so, quasi per tutto il tempo, che siamo qui fuori dal bar a fumare una sigaretta, che stiamo chiacchierando (beh, diciamo che _io_ chiacchiero...), però per un decimo di secondo mi smarrisco. Un decimo? Un centesimo, forse. Neppure il tempo di percepire la sensazione, che è già un ricordo.

Però è fastidioso, sfuma un po' tutto, come la nebbia. Non ci vedi bene, come dire. Sai, ti sembra di avere gli occhiali sporchi, li pulisci, e ti sembra lo stesso.

Ma ogni tanto i sogni sono più bizzarri. Ieri notte, ad esempio, eravamo sul surreale. Ohi, c'eri anche tu, sai? Stavo proprio parlando con te, più o meno come adesso, solo che era giorno, e non notte, ed eravamo fuori da un negozio di alimentari. E insomma eravamo lì, non ricordo cosa stavamo dicendo, una barzelletta, odore di pane, un aneddoto, o forse, per contrappunto, ti stavo raccontando un sogno, proprio come ora. Eravamo lì, dicevo, e tre o quattro persone sono uscite assieme dal negozio, ricordo un paio di signori panciuti rigorosamente in tenuta turistica, forse una bambina, e una corpulenta signora, tipo sessantenne, in un vestito rosa, dio sa perchè. Ricordo anche le scarpette argentate col tacco, giuro. E, vedi come sono buffi i sogni, non ricordo il tuo viso, o quello che mi dicevi, ma ricordo perfettamente che in quel momento due passeri sono scesi avvinghiati, litigando, dal noce lì a fianco.

Vabbè, dicevo...

Dio lupo! Che razza di culo! Ma quella tipa lì ce l'hanno fatta crescere dentro, nei jeans, come le pere Williams nelle bottiglie, o glieli hanno dipinti addosso? Bon, comunque è passata e noi non eravamo interessanti, immagino, visto che non ci ha cagati.

Vabbè, dicevo... Ehi! Girati dalla mia parte quando parlo! E' inutile che tu la guardi scomparire all'orizzonte. Non. Ci. Caga.

Allora, tu saluti i signori con gli infradito e le coscie esposte, tutti guardano te, e ottanta chili in rosa con tacchetti argento mi si schiantano contro.

Cioè, è quello che mi aspettavo, era lì, le leggi della dinamica dei corpi son quel che sono, ho spostato un piede indietro e mi sono preparato all'urto, beh, alla cannonata.

E mi è passata attraverso.

Proprio attraverso.

Sai come sono i sogni.
Però ho avuto un attimo, come di dejavù, di una desolazione, di un grigiore assoluto, nell'attimo in cui passava attraverso me. Come se io fossi nella mia casa, da solo, e le finestre fossero tutte abbassate, le porte tutte chiuse, immodificabilmente, definitivamente chiuse. Brrr...

Durato pochissimo, per fortuna. Ma la cosa più buffa, nel sogno, quella che quasi mi ha fatto ridere, è stato che tu salutassi i turisti senza minimamente accorgerti del fatto che una di loro mi era passata attraverso, senza minimamente accorgerti della mia espressione. Vero, non stavi guardando verso di me, però mi ha fatto ridere lo stesso...

E poi tu hai spento la sigaretta, hai fatto una faccia strana, boh, quasi triste, sembrava, ha guardato i passeri, e poi sù verso il noce, e poi nel cielo, e poi...

Ehi! Dove stai andando?

Ohi!

Dico, ma cazzo, e salutare? Troppa fatica?

Ma che razza di stronzo...

30

Quando la furia spalanca le ali.

La picchiata dell'aquila, l'aprirsi delle ali all'ultimo momento, l'ultimissimo momento, l'urlo del vento, gli artigli, e non ci sei più. Che tu sia la marmotta o l'aquila, in quel momento non ci sei più.

O il tramonto dopo un temporale, il cielo che si apre enorme e rosso. Solo, in un attimo. Veloce.

O quando ti alzi in piedi, d'improvviso, nella stanza vuota, e gridi fino a raschiarti la gola, e il giorno dopo hai le nocche gonfie.

Il momento...

L'attimo.

E' una gioia bianca.
In quell'attimo sei infinito, invincibile, enorme. Niente può fermarti, perchè non stai pensando, non puoi aver paura. Sei la morte che viene, che apre il suo mantello sul mondo, sei l'inverno che arriva, sei il sorgere del sole, sei la tigre che attacca, sei Alì a Kinshasa, sei la cosa più grande, l'unica, la tempesta nel deserto, nessun'altro esiste, niente resiste, e non ci sono bene o male da mettere in bilancia, ma solo FURIA, solo furia cieca, nessun dolore.

Nessun dolore, da prendere in considerazione, nè tuo nè altrui. Il dolore abita un mondo diverso da quello della furia. Magari ci ritornerai, in quel mondo, ma adesso non pensi, semplicemente. Quindi non lo puoi sapere.

Sì, sì, la furia è vendetta, nessun dubbio. Vendetta per l'impotenza di una vita intera, vendetta per le violazioni dello spazio personale centellinate negli anni, vendetta per tutti gli imbecilli presuntuosi che hai incontrato, vendetta per tutte le parole vuote, o non dette, vendetta per i colori sbagliati, le canzoni sbagliate, gli amici sbagliati, vendetta per la vita che non è mai come pensavamo sarebbe stata. E, soprattutto, vendetta per le occasioni perdute.

Perciò, amici miei, l'ansiolitico che mi sento di consigliarvi, se non avete controindicazioni nei riguardi del carcere, è la furia, sì.

Il costo? E' che devi diventare un altro. O tornare ad essere un altro.

29

Ragnatele. Terlaìne, in dialetto, ma ragnatele. Sono quelle che ci prendono, sono quelle la vita. E il ragno, cazzo, il ragno, lo chiami amore. Terlaìne.

28

L'uomo arlecchino. L'uomo di tutti i colori. Se lo tagli, sanguina, ma il suo sangue è come una serra di primule.

E poi, non lo tagli. E' l'uomo di tutti i colori, chi lo vorrebbe tagliare?

Quando parla, tiglio, caprifoglio, melissa. Quando si muove, gatto, radici di larice, pioppo tremulo. Quando passa sotto l'ombra delle foglie nuove, è verde chiaro su nero, lo stemma della primavera. Quando piove è il profumo della polvere bagnata, quando c'è il vento secco è nelle braccia agitate degli alberi. Quando scorre nel torrente è il ritorno di acqua dietro al sasso, quando abita nel fiume è il luglio che scorre lento e maestoso. Quando passa sotto il sole è il manto chiazzato dell'ombra del faggio, quando passa di notte è la danza delle lucciole. Quando viene l'estate è il ronzio delle api, quando viene l'inverno è la neve gelata dal vento. Quando hai freddo è tutto il buio, quando il vento grida è tutto l'infinito mondo. Quando vedi le stelle e le vedi lontane, sono i suoi occhi. E quando guardi le tue mani e le vedi vicine, sono le sue mani.

L'uomo di tutti i colori.

Se lo potessi uccidere, se esistesse e lo potessi uccidere, smetterebbe di essere ogni cosa. E, forse, io smetterei di essere niente. O comincerei, ad essere niente.

27

L'ansia è normale. E' banale. Tutti sono ansiosi, qualche volta, no?

Beh, è un problema semantico, credo. C'è chi chiama ansia le mani sudate ad una presentazione Tupperware e chi chiama ansia il terrore immotivato che ti prende nel vedere una casa vecchia, o nell'affrontare una curva in galleria. E intendo _terrore_. Al punto che devi prendere con due mani il bicchiere d'acqua che ti serve ad inghiottire lo Xanax, e ancora ne spandi un po' sul banco. Ma non si può prendere lo Xanax, per via che acquieta l'ansia, sì, ma apre i cancelli a sua maestà la depressione. E gli antidepressivi ti azzerano tutto, voglie, speranze, desideri, immagini, tutto. Anche le cose negative, beninteso, ma anche tutto il resto. Quindi non si possono prendere gli antidepressivi. Cioè, si possono prendere, e anche gli ansiolitici assieme, se quello che vuoi è accumulare anelli annuali nella sezione del tuo tronco, e spassartela come una sequoia.

Dimodochè, l'unica soluzione che io vedo è gestire l'ansia. Che è gestibile, di suo. Basta non permetterle di arrivare al panico, che ti inchioda. La fermi prima.

Sei terrorizzato dalla curva in galleria? Mettiti sull'automatico, incazzati con te stesso, ricordati che son trent'anni che fai curve in galleria, e che _è impossibile_ che tu non la sappia fare. Che la _devi_ fare. E così la fai.

Sei terrorizzato dalla casa vecchia? Sposti lo sguardo veloce, su altre cose, in rapida successione, e si sposta anche il tuo pensiero. E quando ti sei distratto, respiri lento e profondo, e cerchi di fare moltiplicazioni a mente, o di visualizzare in tre dimensioni.

L'ansia è gestibile, con qualche trucco.

L'unico, possibile, irrimediabile errore è delegarne la gestione. Nel momento in cui accetti un aiuto, in quel momento ti arrendi all'ansia, e non sei più in grado di gestirla, da solo. E per tutta la vita avrai bisogno di qualcuno che ti tenga per mano.

Ora, io capisco che è una questione di punti di vista. Per qualcuno è addirittura un punto di merito, il rendersi conto di non farcela da solo e chiedere aiuto. E anche per me, l'essere tenuto per mano è una tentazione quasi irresistibile. Quasi. Se mettere la propria mano in quella di un altro è segno di reciproco affetto, di rapporto alla pari, allora mi va bene. Più che bene. Ma se sono io che devo chiedere aiuto, allora preferisco schiantarmi, nella famosa curva in galleria.

E comunque, l'ansia, quella vera, non è banale. E' enorme, nera come la notte, grande come una tempesta, con i denti del lupo e gli occhi del gatto. E' poesia, anche se non bella poesia. E' vita, vita vera, come dire.

E' il ruggito dell'universo, nel buio del bosco. Quell'universo immenso, quella desolazione infinita, quell'infinito nulla punteggiato di sorrisi di bambini e di sapori di biscotti, che non contano niente, che nessuno ricorderà, _inutili_, persi, passati, quel vuoto la cui evidenza neghiamo, ogni giorno, per arrivare a quello successivo. L'ansia è, beh, realtà. Ogni tanto, sbatterci la faccia non è male. La faccia sanguina, ma sanguinare è essere vivi.

26

Vedi quell'uomo, quel vecchio, che cammina sul marciapiede? Che cammina nella sera? Mentre sfonda l'imene nero fra un lampione e l'altro?

Si confonde, nel suo cappotto nero, con lo sfondo di scena, la notte, la notte fra il paese e il grappolo di case più in là.

Cammina, sul marciapiede in salita, un marciapiede piastrellato di bianco e verde, fiammate cremisi di tramonto nel cielo, e i draghi....No, no, fermati, questo non c'entra! Il marciapiede non è dentro casa mia, i draghi non ci sono, ed è sera, una sera normale, grigio scuro se non ancora nera.

Cammina, in salita, su un _normale_ marciapiede d'asfalto. Ecco.

Lo vedi?

Si distrae. E il suo passo s'accorcia, passettini brevi giocati d'anca, come chi ha il fiato corto e il mal di schiena. E si incurva, anche. Vita di merda. Poi fa mente locale, alza la testa, allarga le spalle, e cammina a passi lunghi. Lento, magari, ma padrone.

Lo vedi? Respira con un po' d'affanno, muove i muscoli della schiena con una certa cautela, ma intuisci, nel passo scelto, voluto, una qualche efficienza, un qualche pericolo, ancora.

Sì, vecchio, capelli grigi al vento, ma io non lo affronterei, disarmato, su quelle piastrelle verdi e bianche. (No, cazzo! Casa mia non c'entra niente. Nè con me nè con lui. Lui è sull'asfalto crepato di un marciapiede in salita, io sono su un tapiflex color cacca di bambino, siamo altrove).

Beh, dicevo, lo vedi?

Quell'uomo, quel vecchio, ha ucciso.

Ucciso un carabiniere.

E' appena uscito, quasi venticinque anni.

Voglio dire, non che lui avesse ragione. Sono venuti a cercarlo a casa, sapevano dove trovarlo, e sapevano cosa aveva fatto. E lo sapeva anche lui, come no.

E' solo che...

E' solo che dovevano chiedergli di uscire.
Preso? Ok, preso. Sfiga. Ma mi fai uscire, e poi mi metti le manette. Non entri sulle piastrelle bianche e verdi, cazzo! Non entri sulle _mie_ piastrelle.
La cosa è semplice. Io ho una casa, e quella è casa mia. Mi metti in prigione? Va bene, può succedere. La mia casa non la abito, per un po' o per sempre, ma rimane casa mia. Rimane il mio posto, le mie piastrelle bianche e verdi. (Che poi, non le ho neanche scelte io, le ha scelte il piastrellista. E comunque, cosa cazzo c'entra? Non sto mica parlando delle mie, di piastrelle).

Beh, insomma, il concetto era: "Facci entrare!"
No.

Sono entrati lo stesso, ed è andata come è andata. Ho sparato nel mucchio, e uno è andato giù.

E beh, porca puzzola, sono ancora convinto che la sua morte non vada in pari con il fatto che il suo sangue ha coperto le mie piastrelle bianche e verdi. Perchè il suo sangue era suo, cazzo, cosa c'entrava con casa mia?

Voglio dire, se qualcuno può entrare in casa tua anche se non lo vuoi, allora non hai una casa. E se non hai una casa, allora non puoi scappare, non puoi nasconderti. Non puoi tornare.

E chi sei, se non hai un posto in cui tornare?

25

Che poi dicono "disegno intelligente"...

Io mi intristisco ogni volta che mi vengono in mente i serpenti adolescenti. Ma ci pensate? Due emipeni, e neanche una mano.

24

Apo è il topolino in cucina, o meglio è sia lui che il suo predecessore. Quando, in settembre del 2005, sono venuto a stare qui sui monti, c'era un topolino in cucina, che abitava nel cassonetto delle tapparelle. Avevo deciso di catturarlo e di metterlo fuori, vicino al composter, ma nel tempo che mi ci è voluto per ricordarmi di comperare la trappola a vivo è venuto Sua Maestà l'Inverno. Quassù l'inverno non è quella roba finta che c'è in città, non è quella spolverata di neve bagnata che due ore dopo è grigiognola e semisciolta. Non è il fastidio di dover camminare sotto i portici, o il maglioncino tanto vado da qui al bar. Quassù se nevica in novembre la neve rimane bianca e gelata fino a marzo, e le giornate in cui tira l'aria todesca (vento dal nord) ti cadono le orecchie, se non sei imbottito come un palombaro. Il capodanno del 2005 erano 17 sotto zero, con un vento che ti portava via. Beh, insomma, non me la sono più sentita di mettere fuori Apo, così l'ho adottato. Gli ho messo un piattino con del cibo (sì, come per l'asinello di Santa Lucia) e una tazzina con l'acqua sul suo percorso, ho levato tutte le cose rosicchiabili dai posti che poteva raggiungere, e abbiamo trovato un accordo di pacifica convivenza. Ogni tanto mangiucchia la saponetta sul lavandino, come la ragazza eschimese di Mark Twain, ma pazienza.
Perchè Apo? Io pensavo che i topolini campestri fossero topolini campestri e basta, o al massimo Mus musculus. Ma un giorno ho parlato con un esperto, l'ho descritto, e mi ha detto che era senza alcun dubbio un Apodemus sylvaticus, certo non un flavicollis, anche se per un attimo aveva avuto il dubbio. Così ho scoperto che ci sono un mucchio di specie di topolini, neppure molto imparentate fra loro. Comunque, da qui "Apo".
Avevo, residuo del Natale 2005, un sacchetto di caramelle Rossana, chiuso e sigillato, sul percorso di Apo. L'avevo lasciato lì, sia perchè le Rossana non mi piacciono sia perchè era, appunto, chiuso. Ma Apo l'ha aperto, e se le è portate tutte, una per una, nel cassonetto. E ancora oggi, se mi dimentico per qualche giorno di dargli da mangiare, trovo la carta di una Rossana ai piedi della sua tana. Non gli piacciono molto, evidentemente, ma come razioni di emergenza a lunga conservazione funzionano.
Non mi vergogno a dirlo, stavo aspettando pazientemente che morisse. Il cassonetto andava riparato (Apo ci era entrato dall'esterno, e come lui anche l'aria todesca), ma non volevo sconvolgergli la dispensa. Tanto, a detta dell'esperto, quelle bestiole vivono un anno, un anno e mezzo al massimo. Dopo un paio d'anni di paziente attesa, sono scoppiati i casini. Trovavo tutto il cibo sparpagliato attorno al piattino, feci nella tazzina, cose così. Poi ho trovato un topolino morto sotto il sacchetto delle immondizie, ma il cibo continuava a sparire lo stesso. Cambio della guardia. E non era un estraneo, il cadaverino, era proprio Apo, perchè il suo successore aveva gusti decisamente diversi. Sì, i topi hanno preferenze alimentari individuali, e le scopri dal tempo che ci mettono a far sparire i vari cibi. Voglio dire, hanno sempre delle riserve e perciò se qualcosa non incontra il loro gusto può rimanere sul piattino per due o tre giorni, prima di sparire. O anche per sempre, nel caso delle cipolle...
Insomma, adesso sto aspettando che muoia _questo_ Apo.
Tre aneddoti, poi ho finito. Il primo Apo era golosissimo di spuma bionda. Gliene riempivo un tappino, e la mattina era vuoto. Poi mi hanno dissuaso dal farlo. Pare che ci sia il rischio di causargli il diabete. Ma rimango convinto che sia l'unico sorcio nella storia del mondo ad aver bevuto spuma bionda.
E, sempre il primo, si faceva vedere raramente da me, ma compariva _sempre_ se avevo ospiti, in special modo se stavamo suonando. Musica da topi, la mia, mi verrebbe da dire. Comunque giuro, nessuno suonava il piffero. Cioè, un mio amico sa suonare il flauto traverso, ma ultimamente è perso anima e corpo nell'accordeon, e non c'è mai stato un fisarmonicista di Hamelin, che io sappia. Il secondo Apo invece è decisamente più asociale, non lo vedo praticamente mai. O forse sono diventato più asociale io.
E, nel periodo di interregno, un giorno sono entrato in cucina e sul piano del mobile c'era un cucciolo di topo. Una cosina davvero minuscola, fatta solo di zampe posteriori, occhi e orecchie. Con in bocca un pezzo di biscotto. Sul piano suddetto c'era un microonde (regalo mai utilizzato) e lui cercava di passarci dietro con il biscotto per traverso in bocca, ma lo spazio non bastava. Mi sono avvicinato piano piano, fino a toccarlo, ad accarezzarlo sulla schiena, e ho visto che tremava. Povera bestia, mi son detto, chissà che paura, e mi sono allontanato subito. Ma poi ho realizzato che non stava tremando, stava rosicchiando. Della serie, se non riesco a portarmi via il biscotto, per dio, lo mangio! Aveva i coglioni, il piccolo. Tutto qui, per parlare...

__________

Adesso c'è Apo tre. Mangia forse una volta alla settimana nel suo piattino, e non l'ho mai visto. Credo che l'evoluzione generazionale dei miei topi rispecchi la mia evoluzione geriatrica. Si mangia sempre meno, si vede sempre meno gente, e si è sempre meno convinti di esistere.

23

E certi giorni i pensieri vorticano come i peli del cazzo nello scarico della vasca da bagno. Vorticano attorno a un centro, dal quale non riesci a staccarti. A staccarli. Non voli sulle ali del lupo, non ragioni gelido come cristallo di rocca, non sei tempesta di vento, non sei arguto e cinico, non succhi il dolore altrui per benedirti.

Pensi, ma neanche, qualcosa dentro te pensa. Con un solo centro, un attrattore strano, direbbero i matematici. Tutto ci gira intorno, a caso, ma tutto prima o poi finisce lì.

E non è neanche male. Qualcosa da pensare rimane un'ancora. Qualcosa da immaginare ti tiene qui.

Ma essere troppo stanchi non fa bene.

Essere troppo stanchi porta a inventarsi cose. Cose impossibili, come gli elfi nel bosco. Come il terrore della casa quadrata e banale. Come gli alberi che si spostano per un fulmine. Come la strada che scivola di lato in galleria. Come le coltivatrici di herpes. Come i fiori gialli a tredici sotto zero. Come le montagne che si spostano se guardi in sù. Come i giardini di rose di re Laurino.

Sono stufo, _stufo_, delle cose che entrano di prepotenza nella mia testa.
Perlomeno, sono stufo di quasi tutte. Fossi stufo di tutte, proprio di tutte, non potrei più raccontarmi bugie, no?

22

Io mi ricordo...

Ricordo un pomeriggio di novembre, un pomeriggio di vento. Le foglie che volano, l'aria che taglia la faccia. Io cammino, lungo la via principale, passi lunghi e molleggiati, veloci, spalle larghe, tutto che funziona come una leonessa in caccia, pronta a scattare, i muscoli delle spalle che dicono ai passanti "scostatevi", la testa alta, il cappotto nero che svolazza, e la consapevolezza, la sensazione, di essere invincibile, nel vento, in quel vento freddo che ti spettina e ti crea, in quel mondo enorme che è tuo, ora, solo ora, ma è tuo.

Ricordo una quieta mattina di luglio, lungo le rive del Noce. Cinque temoli già puliti lì vicino, la canna da pesca appoggiata sul prato, nessuna urgenza, o necessità, di prendere il sesto. Una sigaretta, la schiena contro un albero, il mio amico che pesca lì vicino, e niente al mondo che abbia fretta, niente che mi chiami, che mi imponga cose. Solo stare lì, in quel momento, fermi, a guardare l'acqua che scorre e non pensare a nulla. Solo essere vivi in un mondo vivo, verde, tiepido. Nel sole.

Ricordo una sera di gennaio, il sapore del vin brulè ancora in bocca, la neve che cade tutto attorno. Che turbina, tutto attorno. Tutto bianco. Intabarrato in una giacca a vento, a testa scoperta, con i piedi bagnati, in trenta centimetri di neve fresca, chiuso in una perla. Una perla fatta della luce strana della neve, di quella luce di cui la neve sembra risplendere da sola, e del silenzio strano della neve, come una cappa d'ermellino sopra i rumori ordinari della gente. L'unico, l'unico odore, debole, è quello della lana bagnata della sciarpa. E io che rido, da solo, per la meraviglia, per la bellezza, per lo stupore.

Ricordo un'alba cattiva di aprile, sull'Avisio. Certo, il profumo dell'aria promette primavera, ma il vento sull'acqua ricorda ancora l'inverno, e te lo dice chiaramente. Dietro un'angolo di roccia, a due metri da me, una volpe, sul ciglio dell'acqua. Ci siamo guardati, con la stessa sorpresa negli occhi, e poi lei è _scomparsa_. E' rimasto il profumo di primavera, il gelo dell'inverno, sono rimasti i massi e il torrente, ma la volpe è scomparsa.

Ricordo una notte d'agosto di tanto tempo fa. Una notte dolce. Con un profumo dolce. Ero nel bosco, dopo essere rientrato a casa all'ora canonica ed essere uscito nuovamente dalla finestra. Nel bosco, in un bosco magico. Il fienile, Dos de la Mot, a Pinè. C'è un sentiero in salita fra i pini, che poi diventa una specie di cattedrale, in piano, sotto una cupola di faggi. Alla fine, il sentiero si apre su un prato, e sul fienile, a fianco del prato. Lì, vicino al fienile, ho visto gli elfi grigi. Le loro luci, i cavalli condotti a mano. Passavano, diretti ai porti, sperando che ci fosse ancora una nave per portarli via di qui. Elen sila lumen omentielvo. (lo so che non è vero, ma non posso comandare ai ricordi).

E ricordo un sogno. Ero alla testa di un branco di lupi, e correvamo giù per una collina verde d'erba, in una luce scura da temporale. Sempre più veloci, sempre più veloci, finchè non ho aperto le braccia e non ho cominciato a volare.

Questi sono buoni ricordi...

22

Bambini, crudeli come cristalli, che fischiettano per strada, spensierati. E uccidono, e muoiono, spensierati.

Non è difficile uccidere o morire, se sai che comunque non c'è nessun grande sogno, nessun futuro radioso, nessun mulino bianco in vista. Se sai che _comunque_ muori, e muori giovane.

Noi lo sapevamo, prima che arrivassero gli ammerrecani con le loro cazzate. Noi lo sapevamo, e lo sapevano perfino gli inglesi (i tedeschi non si sono mai posti il problema, credo).

Si muore, punto.
Vai a chiedere a un bambino nero o ispanico in un qualche campeggio di camper attorno a una grossa città americana, vai a chiedere a _chiunque_ in Africa, vai a parlare con i contadini cinesi, con gli slavi, con i mongoli, con i boscimani, con i fuegini.

Vai a chiederlo ai vecchi che abitano i paesini in spopolamento sui monti in Italia. Ai quindici vecchi che li abitano.

Sai, quelli che sono i sopravvissuti di venti fratelli, uccisi magari anche un po' dalla guerra, e certo non dai machete o dalle mine, ma _morti_, comunque.

Si muore.

Ti diranno, beh certo, si muore.

Sono solo quei coglioni d'oltre Atlantico, quelli che hanno ottantasei anni, la dentiera, il cancro alla prostata, una caviglia slogata, i capelli tinti, che se chiedi loro come va ti rispondono "Fine!"

No. Devi rispondere "Culo! Ci sono ancora, e sono ancora in grado di risponderti. Certo, sto di merda, come no, ma la più parte della gente _muore_, è morta, oppure sbava consonanti sul mento, e allora mi va di culo. Ho male in otto posti diversi, sono un alcolista, faccio schifo a chiunque e ho anche un cattivo odore, ma ci sono ancora. Perchè sono nato nel posto giusto del mondo. Culo. Quel culo che il bambino crudele come cristallo non ha avuto. Ma ha dovuto dare, probabilmente".

21

Fantasmi, con le magre ali fatte di ossa e ricordi, a coprire la luna, che comunque stasera non c'è. Mani di frassino, aghi di larice.

Non è il bosco che chiama. Il bosco se ne fotte. E' la mia testa che lo inventa. Invento volontà, desideri, paure.Il bosco di notte è legno, niente altro. E' assenza di luce, niente altro. Il bosco di notte è nemico solo se io lo penso nemico.

Ricordi? "E' buio nel bosco di notte ma, se mi proteggi dalle cose cattive, io ti faccio strada. E non cado." Ma il bosco non era buio davvero, lo vedevo buio io. Lo facevo vedere scuro a te. E comunque sono caduto, alla fine.

Non c'è gloria nel difendersi coraggiosamente dalla propria ombra, immagino. Per quanto non ci sia ombra, di notte, nel bosco. A meno che non ci venga in soccorso la luna piena sui campi di neve.

E questa sera volano qui attorno, i fantasmi dalle ali magre. Solo che io quasi non li vedo.

Vorrei, davvero vorrei, vederli ed esserne terrorizzato. Vorrei provare qualcosa, fosse anche il terrore.Ma passano come ragnatele, e li tiro giù con una scopa, come ragnatele.

Notte impietosa, che umilia, ma non uccide.

Notte lunga, soprattutto.

20

Io sono nessuno.

E la notte è sparpagliata sul mondo come quando muovi le mani per dire pressappoco.

Sempre più grande, la notte, mano a mano che viene inverno.

Sempre più nera.

Io sono la notte.

La notte nera.

19

E' primavera. Una strada di campagna, sull'altopiano, fra dossi e vallette. Una strada di ghiaia bianca. I soffioni spuntano fra le rodane dei trattori. E cammino, cammino. A volte, a tratti, il sole è feroce, scalda i capelli sulla nuca, e li devo scompigliare. Poi passo su un vecchio ponte in cemento, due metri sopra il ruscello, e lì l'aria dell'inverno morde ancora, senti che la terra, anche sotto il sole, ricorda il febbraio appena passato. E i giochi di luce fra le foglie nuove, ombre da calpestare, e i tratti d'asfalto consumato che si crepano come il sorriso di un vecchio. Profumi. Fiori di ciliegio selvatico, Prunus avium, credo, che cosa inutile il saperlo a fronte dell'incanto sottile che la sua fioritura spande dovunque. Salite, polmoni che faticano, quella cosa idiota di regolare il passo sul respiro, cosicchè più mi stanco più vado veloce, e discese, che mi vien da correre, da scivolare sui sassi che rotolano sotto le mie scarpe e rialzarmi ridendo. D'un tratto, improvviso, il forte odore di lievito del fungo di San Giorgio, ed eccoli lì, in fila ordinata lungo il bordo strada. Ne ho pestato uno, e mi dispiace, ma gli altri restano, non sono in caccia. E cammino, cammino. I prati attorno diventano bosco, poi tornano prati, poi rocce, a lato, un altro torrente, piccole trote, e di nuovo prati di sole di maggio.

E poi il sentiero muore.

Muore in un'esplosione di arcobaleni, in un'epifania di colori, muore, quel che c'è oltre non lo si può capire, non offre nessun appiglio al cervello. Tutto, lì, finisce, tutto il comprensibile finisce. Quello che va avanti è solo confusione. Grandiosa, ok, ma inconcepibile.

Seduto su un grosso molare di porfido appena sul ciglio dell'assurdo, questo signore dalla pelle tesa sulle ossa della faccia mi guarda con due occhi sbalorditi e mi dice: "Mi è scappato il sentiero."

Dio, ti prego, non esistere. Voglio, almeno, la dignità di averlo smarrito da solo, il sentiero.

18

Uf. La gente. Le passanti di Brassens. O gli ubriachi di Pinè. Fra cui io, ovvio.

La gente. Colori, umori, odori. La rabbia della balla di ieri sera, la collana di corallo, il sudore avvelenato dalla paura.

O magari i sorrisi sinceri, l'innocenza nei modi. Quasi mai, a dire il vero, se non nei cani o nei bambini.

E il temporale che romba in testa, mentre esibisci i denti, mentre porgi parole inzuccherate, mentre vorresti _uccidere_ e invece ti relazioni, cazzo, ti relazioni, che è un verbo che non dovrebbe neppure esistere, eppure lo sto scrivendo, qui, nel privato di un blog privato, a dargli sostanza e realtà.

Siamo finti, ecco. Tutto qui. O, almeno, io sono finto, voi non so, ma non ho motivo di credere che per voi sia diverso.

Vorrei uccidere, a morsi, o con un bastone. E invece sorrido e faccio conversazione. E faccio anche rima. Non è bello, questo?

Merda.

17

Le bestie dela not
le viaza lizere.
Chel che pesa l'è i sogni,
e i sogni no i pesa.

16

Campanellini d'argento. Ai polsi, alle caviglie, tintinnano.

Spade di luna piena che si schiantano sugli alberi, sul prato, sulla pelle sudata, sulle gocce d'ambra. La luna e le nuvole che corrono, e quella luce impossibile, che sembra galoppi, a tratti, che sottolinea e nasconde.

E la danza, il corpo che gira e si avvolge come lo zucchero filato sul bastoncino, tlintlintlin, come cento anni di una radice di larice in un momento solo, come una lince in equilibrio sulle punte.

Ombra, luce di latte, ombra, fasce di seta lunare.

Attorno, la paura, il buio indifferente, gelido, del bosco di notte. Il buio cieco.

Ma lì c'è il canto dei campanellini.

E il controcanto del risucchio dei piedi che danzano.

Del risucchio dei piedi che danzano nella merda di cane.

15

Ma se mi no ghe 'navesa voia, de far tute ste robe? Se a tut quel mondo diverso, che 'l cambia de dì 'n dì, ghe disesa del nar en mona, che mi stago chì scondù sot al let? Voi dir, 'sa sucedel? Rombi di tuono e fulmini che me fulmina? Opure va avanti tut gualif, nisuni se nascorze de nient, e vegnin finalmente a capir che se ghe son o no ghe son no cambia 'n cazo?
Sì, vero, 'l dovere l'ei 'l dovere. Le robe le va fate, e no ghe piove. No podo meterme soto la scala, 'ncuciolà, a bater broche dala paura, e sat perchè no podo? Perchè podo no farlo, e quindi devo.
 Ma, vaca dio, 'l mondo 'l deventa sempre pù brut, e pù 'ncasinà.
 Distese de pali dela luce, de capanoni de cemento, de case vece (no _antiche_, vece demò) voide, cole finestre stropade coi matoni, perchè i desperadi noi ghe vaga dentro, che i staga fora, i morti de fam, a morir anca de fret. E spuza, e fum, e troie per strada, troie schiave, col gris dela nebia 'n tei oci.
 Ma dio polveroso, ma 'ndò sente finidi? 'N ten posto 'ndò che ghè i siori e i poreti, e niente 'n mez? Come zinquezento ani fa?
 'N ten posto 'ndò che tut spuza de merda, ma arquanti i se mete 'l parfum?
 'N doe che la pianura l'ei schiava e le montagne serve, e la zent la pianze de scondon?
 Ma la zent, la zent vera, 'ndò ela? E i boschi, da scampar, se noi ghè pù, 'ndò scampente?
No, no ste dirme che no ghè pù 'n'orizonte 'ndò trarse, 'n'orizonte 'ndò perderse, perchè senò per dal bon me meto soto ala scala, me ciapo i dinoci coi brazi, ghe posto sora la fronte, e stago lì, fin che moro.

14

Viene mattina. La luce gocciola sul mondo. L'aria è fresca, mai respirata da nessuno. Non ha quasi sapore, eccetto quello, appunto, della mattina. Un sapore particolare, di nuovo, di scelte, di speranza, di, beh, di fresco, come dire. Apri gli occhi assonnati, apri le ali colorate, e immagini i voli. I voli nel cielo pallido, scramblato di nuvole rosa. Roba da sceneggiatori colti da ictus, ma vero, però.

Poi, il giorno matura. Tu voli. Magari non così in alto come pensavi, ma è ancora mattina, giusto? Voli, sulle tue ali colorate, a bassa quota, tanto hai tutto il tempo. Voli, e immagini.

Il sole adesso è in mezzo al cielo. Le cicale cantano, e tu sei grande, di tutta la tua grandezza latente. Oh, ne sai, di cose! Oh, ne hai, di idee! Ed è solo mezzogiorno! Tempo di fare un pisolo fra l'erba, fra le api che ronzano.

Il sole cala, e tutto diventa più morbido. L'autunno è dolce, e ti ci abbandoni.
E la notte, la notte viene. Inarrestabile.
Finchè c'è la luna, l'ovunque amica, ti puoi ancora raccontare delle cose. Ti puoi raccontare che ancora esiste la poesia, che hai ancora le ali (anche se voli come vola il tacchino, anche se con gli occhiali che dovrai cambiare com'è che non riesci più a volare), ma puoi raccontartela. Puoi giocare con le parole.

Ma poi se ne va anche la luna. Affonda nel cielo, dietro le montagne. E, verso le tre di mattina, ali nere che sbattono senza quasi rumore, artigli feroci e il becco che spezza il collo.

Uno squittio, uno squittio disperato. Ecco quel che siamo.

Ali nere, ali nere in un improvviso che ti aspetti, che speri, che non vedi l'ora che arrivi, alle tre del mattino. Perchè, beh, perchè la notte è lunga. Lunga che non la vedi finire.

13

La mente, la mente pensante. Beh, ragiona secondo logica, o almeno così ritiene (è dimostrabilmente falso, sia da un punto di vista speculativo sia da quello sperimentale, ma così ci va di credere). Comunque rimane il fatto che da molti anni, quanti dipende un po' dalla data di nascita e un po' dall'applicazione, siamo abituati a stabilire criteri, priorità, catene di causa-effetto, _coscientemente_, al mondo, intendendo per "mondo" quella cosa che fa da coreografia a noi stessi, i primi attori, i protagonisti.

Il "coscientemente" è la gabola.

"Coscientemente" implica un substrato culturale, variabile, capriccioso, e che va pochissimo d'accordo con i nostri istinti.
Sì, esistono, gli istinti. Anche nell'uomo. _Certo_ che esistono! Sennò, tanto per fare un esempio alla cazzo, perchè la percentuale di adolescenti che commette omicidi rispetto al totale degli omicidi è suppergù uguale in tutte le culture, indipendentemente dal tasso di omicidi pro capite? Perchè gli adolescenti hanno l'istinto di acquisire status sociale. Il che significa rischiare e vincere (ovvio, chi rischia e perde non lascia discendenti, chi rischia e vince sì, perciò la tendenza si mantiene).

Dicevo, la nostra testa, inzuppata di tendenze culturali, di mode, di ideali più o meno contingenti, ci dice cosa è rilevante e cosa non lo è. Ohi! Secondo logica, nevvero?

Ma il nostro corpo, i nostri istinti, piuttosto spesso non sono d'accordo.

E vorrei vedere che non fosse così, cazzo. L'evoluzione culturale è rapida, può richiedere anche meno di una generazione, ma geneticamente siamo ancora esseri viventi che sono sopravvissuti nella valle del Rift. Una cosa ci chiama da un lato, ed è logicamente comprensibile, culturalmente adeguata, _soprattutto_ cosciente, e noi la seguiamo. Un'altra cosa ci urla da di sotto, ci dice che è tutto sbagliato, e noi mettiamo le mani sulle orecchie e gridiamo "LA LA LA LA' NON TI SENTO!"

Ora, non è strano che uno si svegli la mattina, dopo nove ore di sonno, sonno, per quanto ne sa, ininterrotto, con tutte le lenzuola aggrovigliate, con i muscoli delle gambe che gli fanno male, con lo stomaco chiuso come un pugno, con i battiti cardiaci che ci perdi il conto, con la sensazione che tutto vibri dentro al suo corpo, e _senza nessun motivo al mondo_.

Il corpo pensa pensieri che la mente non sa. Tutto qui.

12

Ho visto le menti migliori della mia generazione...

Ohi! E' sempre un buon incipit.

No, non le ho viste. Ho sbirciato quel che potevo nelle menti di quelli che conoscevo, della mia generazione. E alcune, di quelle menti, mi sono
sembrate più belle di altre. Questo per mettere i puntini sulle i.
Alcune mi sembravano davvero menti migliori, qualunque significato possa avere questo aggettivo.

Poi, è passato il tempo.

Siamo appassiti, tutti quanti. No, non proprio tutti. C'è chi è morto per tempo. Vero. Eroina, perlopiù, ma anche suicidio, o infarto. Poco
cambia.

Quelli sono rimasti, nel ricordo, turgidi, gonfi di futuro, splendenti. Splendenti proprio com'erano.

Ma dov'è lo splendore, il futuro, in noi che siamo rimasti?

Il futuro è ora, e ora siamo nulla.

Certo, certo, non è che tutti i tuoi amici d'infanzia possano diventare personaggi famosi solo perchè tu ne eri convinto a dieci, o a venti,
anni. La vita è vita, va come vuole, e non è che si possa prevedere un granchè. Ma non capisco perchè sia così necessario che la poesia, la
grandezza, lo splendore, scompaia dalla gente appena la gente si trova davanti la via di minore resistenza. E ci si adegua. Come un torrente
tintinnante diventa un fiume lento e fangoso.

Voglio dire, una volta eravamo grandi _davvero_!
Lo giuro, lo eravamo.

Com'è che siamo diventati tutti ragionieri? Quando è successo?

O non sarà invece che sono io, a vedere stracci bigi dove invece ci sono ancora armature sontuose, anche se non più così scintillanti?

Ma, se così fosse, come mai vedo scintillare, anche ora, le armature dei giovani, dei giovani che noi eravamo, e che loro adesso sono, mentre
vedo le menti migliori della mia generazione vestite di grigio che ciarlano del loro falso incidente?

11

Stoppie, color pelle di leone, intervallate da grappoli di smeraldi, di acquamarine, qui e là. Un cielo enorme, di un celeste profondo, sopra a
tutto. Lontano lontano, le pale eoliche, sul crinale basso, che girano. Tutte, eccetto una.

All'orizzonte, il mare.

Il sole alto nel cielo scava le rughe sotto gli occhi, attorno alla bocca.

Davanti, terra nera, grumosa, appena smossa.

Di fianco, la zappa.

Seduto su un cippo di confine, le mani callose che reggono una lampada che sembra d'argento, sotto la terra che la sporca.

Fa per pulirla, con le sue dita grosse da contadino, e, naturalmente, appare il genio.

L'enorme eunuco scuro, con le braccia appoggiate sul ventre.

"Puoi realizzare tre desideri, uomo. Quello che vuoi."

Gli occhi del vecchio sempre bassi.

"Il primo?"

"Vorrei che tutte le persone a cui voglio bene fossero felici."

"Accordato. Il secondo?"

Gli occhi sempre bassi.

"Vorrei una pistola con un proiettile nel tamburo."

"Accordato. Il terzo?"

Gli occhi grigi si alzano, sotto le le sopracciglie, l'ombra di un sorriso:

"Il terzo? Te lo puoi ficcare nel culo, stronzo!"

10

Immaginate il Nordamerica visto dall'alto, cinquantamila anni fa. Interminabili ondate di bisonti che si spostano sulle grandi pianure, nuvole, temporali di piccioni migratori. Antilopi, camelidi, cervi, bradipi giganti, elefanti, ogni genere di consumatore alla base della catena alimentare, roba che mangia vegetali. E, dietro a loro, i predatori, la roba che mangia carne rossa. Tigri dai denti a sciabola, leoni un terzo più grossi di quelli africani, lupi, linci, puma, orsi, coyote, aquile, tutto l'armametario solito.
Ok, immaginate la stessa scena oggi. Interminabili ondate di automobili, nuvole, temporali di elicotteri e di aerei, ogni genere di consumatore primario. Voglio dire, roba che mangia petrolio, cioè che mangia energia che viene dalla fotosintesi, in ultima analisi. Roba alla base della catena alimentare.

E i predatori? Dove sono finiti?

Beh, ci sono. Pochi, ma ci sono.

Avete idea di quanta gente scompaia, ogni anno, negli Stati Uniti? Gente che non viene mai più ritrovata?

I predatori delle macchine.

Grossi attrezzi meccanici, neri, antiradar, con grandi ali, che fanno il nido sulle Montagne Rocciose (come se ci potessero essere montagne di palta...).

Più sfuggenti di un gatto selvatico, più astuti di qualunque volpe, predano le automobili o gli aggeggi volanti quando non ci sono testimoni, quando nessuno può vederli. Planano sopra alla preda, la afferrano con le pinze ventrali, e la trasportano sui loro nidi. Lì, risucchiano il carburante, riutilizzano i pezzi per aggiustarsi o per assemblare i loro figli, e quel che facciano delle persone, beh, nessuno lo sa. Ma non ricompaiono mai più.

Certo, anche loro hanno un punto debole. I giovani, appena assemblati, non hanno paura di niente. Devono stabilire il loro status sociale, e quindi si avventano su qualunque preda. Per dire, un cucciolo delle dimensioni di una cinquecento può cercare di pinzare e portarsi via in volo una mecedes. Ovviamente, non la può sollevare, e le pinze sono fatte in modo tale che una volta chiuse non si possono riaprire, finchè il peso la tiene chiusa (un po' come le pinze per le tegole...). Ma il cucciolo, l'adolescente, non si arrende, non vuole mollare la presa, e quindi finirebbe trascinato sbatacchiando le ali di qui e di là, se la meraviglia dell'evoluzione non avesse trovato un sistema per ovviare a questo inconveniente.

Le pinze, un po' come la coda delle lucertole, se sottoposte ad uno stress eccessivo, si staccano, rimangono sulla preda mancata, e l'uccellino può volarsene via, pietendo poi ai genitori i pezzi di ricambio per ricostruirle. Cosa che farebbe pigolando col becco aperto, se lo avesse, ma la risolve con metodi analoghi.

E questo, queste code di lucertola, queste pinze abbandonate, sono l'unica prova certa dell'esistenza dei predatori delle macchine.

Sono quelli che chiamiamo portapacchi.

9

Bisbigli. Conversazioni sussurrate. Gente per bene, molto per bene. Giovani e vecchi, incravattati, in completo. Una grande stanza, qualcuno seduto su quelle sedie di velluto con le gambe storte, qualcuno su divani preziosamente, antiquariatamente, scomodi, altri in piedi. Dovunque, nelle mani e sui tavoli, meraviglie rotonde di cristallo con due dita di cognac ambrato. Tappeti per terra, quadri scuri scuri sulle pareti, rovere vecchio sul soffitto, sui pavimenti, dovunque. Corna di cervo. Gente che parla. Tende pesanti sulle alte finestre.

Entri.

Testa bassa, capelli sugli occhi, che grondano pioggia. Gambe larghe, pugni chiusi. Immobile. Piano, piano, alzi gli occhi, feroci.

E la gente avvampa, brucia, si infiamma, grida, si consuma, muore.

Anche tu, ovvio. Lo sapevi, quindi cerchi di non gridare. Ci riesci, per un attimo. Poi, il dolore è troppo forte. E gridi, gridi anche tu, mentre bruci.

E fuori, nella notte, c'è quel tipo con la camicia di seta, la cravatta allentata, gli occhi strappati, che dice, a chiunque lo voglia ascoltare: "Io, signori, sostanzialmente sono un'altra cosa".

8

Come fa la gente a vivere?

Io le vedo, le persone. Ok, i ragazzini ancora non sanno, per loro il tempo è il presente, ci vivono dentro, possono essere disperati o felici, ma dipende solo dalle contingenze al di fuori. Fuori dalla loro testa.

(E non è sempre vero, neppure per loro, neppure qui dove non devi scappare davanti a sconosciuti col machete, o raccogliere i pezzi dei cadaveri dei tuoi genitori, o vedere la tua pancia diventare gonfia e le tue braccia sottili, o morire piano piano di cose strane che ti divorano da dentro, che ti mangiano gli occhi, il fegato, il sangue. Anche nel nostro regno di ladri dai capelli biondi e gli occhi azzurri, anche qui i bambini possono essere feriti a morte, pur con la pancia piena e il telefonino in tasca. Uccisi con le pretese, con le finzioni d'affetto, con il fottuto potere dei deboli sui più deboli. Ma è meno frequente.)

Ma la gente, gli adulti, i vecchi, come fanno a vivere? Non solo a sopportare di vivere, chè per non farlo devi scegliere, mentre invece per farlo basta rimandare la scelta, ma a trovarlo tollerabile, perfino piacevole, a volte?

Io li vedo sorridere, magari in gruppo (e può essere un semplice lubrificante sociale, non dico di no), ma anche da soli, a volte. Li vedo passeggiare, e sembrano sereni. Li vedo fare cose che sembrano dar loro soddisfazione. Cose _inutili_. Cioè, non inutili per loro in quel momento, ma irrilevanti, dimenticabili, in alcun modo significative. Vero, lo so, basta accontentarsi. Avere standard bassi, basse pretese. Accettare di essere nessuno fra miliardi, accettare che tutto ciò che lasci è un necrologio su un quotidiano e due parole da un coglione di parroco che non ti ha neppure mai visto. O magari accontentarsi di essere il secondo più bravo a briscola nel tuo solito bar.

Non è neppure questo, quel che non capisco. Questo è vivere, il vivere normale, il prendere atto della realtà. Non dico che mi piaccia, non dico di riuscirci, o almeno non con facilità, ma lo posso capire.

Quello che davvero non capisco è come la gente gestisca i ricordi.

Come la gente possa vivere ricordando l'odore della crema abbronzante al cocco che la nonna gli spalmava addosso sulla spiaggia di Caorle, quando era bambino. Come si possa far smettere di urlare nella propria testa il profumo del grasso per ungere la sella, che ti porta ad una persona che non sei più. Come si possa addomesticare, o dimenticare, il nano di gomma con cui giocavi nelle grotte fatte di neve, a dieci anni. Come si possa vivere con tutti quei te stesso che non sei più, e che al minimo pretesto ti si accavallano nella mente, piantano chiodi nei tuoi pensieri, sparpagliano quel che tu sei ora nel tempo passato.
Sono solo io, che ho tutti questi me stesso morti e urlanti nella mia testa? Sono solo io che piango se vedo un cielo d'ottobre a maggio, se sento il profumo della pioggia sulla polvere d'estate, se vedo cadere la neve e la vedo diversa eppure uguale, la _sento_ diversa e so che è la stessa?

Io non so come la gente faccia a vivere. Magari fingono, tutti quanti. Magari sono bravi a sorridere, e poi, nel chiuso delle loro stanze, piangono fino a finire le lacrime. O magari si addormentano al suono rassicurante di un migliaio di frasi fatte, si addormentano dimenticandosi di vivere. E di aver vissuto.
Ma c'è un mondo attorno. Un mondo che puzza orribilmente di ricordi, di cose fatte, giuste e sbagliate, di tempi che non tornano e che il fottuto caprifoglio ti fa rivivere, per un attimo. Un mondo attorcigliato, incasinato, fluido, che scorre e colpisce, alla schiena perlopiù, un mondo in cui io sono io ma anche altri, altri di cui non ho quasi più il ricordo e che però non stanno quieti come il fango sul fondo dello stagno, ma intorbidano l'acqua, tanto che non so più dove andare. Un mondo che diventa sempre più brutto, ma non perde occasione per mostrarti fotografie virate al seppia di quando tutto era diverso, e tu eri tu eppure non ricordi i tuoi pensieri di allora, eri tu ma era anche un altro, molti altri, che abitavano nella tua testa.

E allora sto fermo. Aspetto che finisca. Senza radici, senza germogli. Basta un alito di vento...

7

Cammino, in questa notte calda. Cammino per le strade del paese. Cammino leggero. Le vie strette, selciate di porfido. Il silenzio. Luce di lampioni che mi regala uno scorcio di casa, un cerchio di strada, una fontana. Queste case fra cui cammino sfiorando appena il terreno, queste case che erano già vecchie quando tutto era buio, quando la notte era piena di stelle. Mi vedono passare come un lampo nella loro lunga vita. E io invece cammino lento, leggero. Gli occhi grandi e innocui. Un bar. Musica, rumore. Saluto qualcuno, scivolo fra la gente, non tocco, non sfioro, un balletto, quasi. "Caffè d'orzo, grazie." Poi di nuovo un gioco di piedi e di fianchi, un mezzo giro e due passi veloci, e torno in strada, sempre senza toccare, senza essere toccato. Di nuovo nelle viuzze deserte, strette, fra quei muri antichi. Voci, sommesse, da una finestra. Chissà chi sono, cosa dicono. Sono così leggero. Potrei entrare, passare attraverso il muro, sedermi con loro, ascoltare. No, non parlare, non toccare. Ma non mi importa. Forse potrei volare, questa sera. Attraverso questo cielo sporco di lampioni, attraverso questo tempo sporco di gente. Ma cammino, lento. Le case sono indifferenti, non mi vedono neppure. La fontana sembra vivere con me, con l'acqua che scorre. Ma se la guardo bene, è ferma a mezz'aria, o forse è già passata tutta avanti, non so. Non c'è nessuno. Silenzio, nella finta notte senza buio. E io cammino, leggero, lento. Dritto attraverso la vita. Senza toccare.



Con un gesto breve, quasi dolce,
congedò le spade di sole sui riquadri del parquet,
congedò l'odore del sapone, e del tiglio.
Mise in libertà l'armadio vecchio
e le terribili scale della cantina.
E il noce, l'asfalto del cortile, i ghiaccioli al limone.
Perfino il caprifoglio.
I profumi...
I profumi sfilarono lentamente le unghie dal cervello vivo
e scivolarono via.
Senza neppure un grido, a dire il vero. Senza nemmeno un grido.
Come un uomo congeda la saliva di un cane,
con lo sguardo altrove, la mente altrove.
Un breve accenno col polso,
l'inizio dell'allargarsi delle dita.
Ed ora, tutto è solo quasi vero...

6

Uomini neri, alti, ragazze pallide dagli occhi scuri. Avanzano su un largo fronte, fra i meli. In perfetto silenzio, nella sera. Camminano, piano. Poi più veloci. Rompono in una corsa leggera, si chinano in avanti, allargano le braccia, dita ad artiglio. Ridono, in silenzio. Sempre più rapidi, sempre più chini. Schivano agili i tronchi dei meli, e corrono, ormai a perdifiato. Il fronte diventa una mezzaluna, e le ali si chiudono su di me. Preso, ormai.

Mi giro per provare, almeno, a combattere, ma mi sono già addosso. Mi strappano i vestiti, e dentro non c'è niente. Io non ci sono.
Arrivate tardi, ragazzi.

Se vedessi gli abeti, o anche solo un sorbo, potrebbero darmi un po' di sostanza, di carne, qualcosa da afferrare, qualcosa con cui combattere.

Ma solo meli. Quieti come mucche. Non un'ombra di furia, di potere, in quegli alberi mutilati e umiliati.

Campagna, piatta e servile.

Se non c'è un posto dove fuggire, se non c'è un posto mio, come potete pretendere, ragazzi, che io ci sia? Abiti vuoti. Mangiatevi quelli.

5

E' uno di quei giorni che...

No, la malinconia non c'entra niente. La malinconia, la tristezza, il rimpianto, sono sempre parti di te. Non cose buone, vero, ma neppure così cattive. Sono ricordi di te, della tua vita, cose che ti tengono legato al mondo. Sono amare e dolci. Ne farei volentieri a meno ma, quando vengono, le accolgo come vecchie amiche. Sono _me_, per certi versi.

No, dicevo, oggi è uno di quei giorni che quello che ti insegue non è il ricordo, è il cavaliere della paura.
Paura.

La paura non sei tu, è qualcosa che si è seduto nella tua testa. Qualcosa _d'altro_.

Non sono i tuoi ricordi, o tuoi rimpianti, o le tue malinconie. Sono ricordi di altri, che non hai conosciuto e che non potrai mai conoscere.

Guardi una vecchia casa, col suo cortile di ghiaia, e senti, senti davvero, i bambini che ci giocavano a biglie, bambini che ora sono magari vecchi, magari morti, e che tu non conoscerai mai. Che volevano essere qualcosa, e che son diventati tutt'altro, ma non saprai mai nè la prima nè la seconda cosa.

E provi paura.

Paura, per questi sconosciuti che ti si infilano nella testa, perchè sono fuori posto, perchè la tua testa non è dove dovrebbero stare.

Perchè il segno che hanno lasciato nei luoghi, i loro fantasmi, non hanno nulla a che fare con te.

Perchè è già così difficile tenersi assieme, che non c'è nessun bisogno dei ricordi di altri che ti invadono la mente.

E' come quando viaggi in treno, e guardi fuori dal finestrino. Ville, case vecchie, campagne, condomini, posti dove la gente vive e ha vissuto, vite e gente che tu non conoscerai mai. E allora, cosa cazzo ci stanno a fare, nella mia testa? E perchè questo mi fa male?

Fantasmi, fantasmi di gente vissuta e morta, in ogni luogo dove posi l'occhio. E ti gridano nella mente la loro vita vuota, i loro momenti di gioia e di disperazione. E tu ti perdi, non sai più chi sei. Alzi muri, muri di quotidianità, metti la sveglia, ti lavi, vai al lavoro, cerchi di non sentire. A volte funziona. Ma cazzo se gridano, certi giorni.

Ti basta, a volte, una crepa in un pavimento di cemento per farti immaginare che quella che tu vedi oggi per la prima volta è stata importante, magari, per un bimbo di trent'anni fa. Una storia che tu non conoscerai mai. Cosa c'è di male? Nulla. Solo che vorrei che quel bimbo che non ho conosciuto e che non potrò mai conoscere _uscisse_ dalla mia testa.

E poi le cose cambiano, finiscono. Dove fino a ieri c'erano fantasmi, ora c'è magari un centro commerciale. Che non uccide i fantasmi, non li rende meno paurosi. Solo, leva un altro po' di colore al mondo. La paura non se ne va. Ma tutto diventa un po' più grigio, un po' più brutto.

Oh beh, porteremo anche questo giorno a sera, e domani andrà meglio. Ci sono cose belle nel mondo. E il cavaliere della paura può vincermi solo se io mi arrendo. E io _non_ mi arrendo.

4

La poesia.

Io la chiamo così, ma in realtà intendo l'arte, e anche di più. Per dire, certa filosofia, e forse anche tutta la scienza, è arte. E' il modo in cui noi umani cerchiamo di mettere ordine nella realtà, così da sapere in che mondo ci sveglieremo domattina (dormissimo, intendo. Son le tre e mezza di notte...)

Credo che "poesia" venga da "poiein", che cioè l'etimo sia qualcosa che ha a che fare con il creare.

Allora, il poeta è Prometeo. Epimeteo, nessuno sa chi fosse.

Ma il poeta sbaglia, quasi sempre.

Un inciso: la poesia come modo di ricordare è altra cosa. E' una cosa in metrica, che si può cantare, e che parla del difficile ritorno a casa di Ulisse. Non è questo il punto.

Il punto è che il poeta, l'artista, _cambia_ la realtà. Se la imbrocca.

Come dicevo, sbaglia quasi sempre. Ma quando è appena un passo più avanti nel reale, non troppo più avanti, ed ha sufficiente risonanza, _indirizza_ il reale, il reale di noi umani, in una direzione. Cambia, davvero, la nostra realtà.

Poi, come Prometeo, va ucciso, ovvio. Chi cambia la realtà è pericoloso, con ogni evidenza. Quante probabilità aveva di cambiarla in meglio? E quante possibilità ci sono di tornare indietro, dopo un cambiamento in peggio?

Il fatto è che un poeta (etimologicamente) ha dentro qualcosa, e deve farla uscire. Non può farne a meno. Per questo va ucciso. Per tempo.

3

Giù in basso.

Spingi una porta di assi grezze, scendi due gradini, ed entri nel fumo, nel rumore, nelle grida, nei canti, nella luce rossa del camino, sotto un soffitto a volta. Tavoli lunghi affollati di gente, gente con volti grotteschi, denti mancanti, barbe che grondano birra. Fiati pesanti e puzza di sudore, di piscio. Cameriere, vecchie ragazze, che corrono fra la gente, senza mai lasciar cadere un boccale nonostante le pacche sul sedere o le strizzate alle tette cascanti. Grossi ventri che sobbalzano per il riso, e ringhi a muso duro. Barzellette cantate e luccicare di coltelli. Furia e ilarità, che si alternano senza motivo. Appesantiscono l'aria più del fumo e della luce del fuoco. Tutto rotola in giro senza direzione, persone, emozioni e boccali vuoti. E il rumore, mio dio, il rumore...

Su in alto.

Tavoli d'acero bianco su pavimenti di marmo. Luce gelida di gennaio dalle grandi finestre. Alte, magre persone, dai limpidi occhi grigi privi di qualsiasi espressione. Ogni movimento è minimo e controllato, ogni parola sussurrata. Quando si incontrano, l'ombra di un sorriso alza gli angoli della bocca, ma non sale più su. Fare l'amore è una sequenza di gesti, previsti. La luce bianca illumina oggetti strani, posti alle giuste distanze fra loro. Ogni tanto, con un gesto preciso, un uomo ne sposta uno, magari solo di due centimetri. Come un pezzo degli scacchi. E i presenti annuiscono, con i loro occhi freddi. Ogni cosa ha un suo posto, ogni persona ha un suo posto. E tutto è controllato dalla forza inflessibile, incorruttibile, invincibile della mente di ognuno. Niente può essere in disordine, niente può essere per caso. Perchè non lo si vuole, e la volontà comanda. Nè può essere piegata. La volontà comanda, il corpo, il mondo, obbediscono.

Nel mezzo.

La gente.

2

Una volta devo aver scritto che non c'è niente al mondo di più gelidamente elfico (nel senso del re degli ontani, non di Galadriel) di una luna piena di gennaio fra i rami spogli di un sorbo.

Beh, mi sbagliavo.

Vedere con lo stesso gelo nel cuore, con lo stesso mantello che sbatte nella notte, con lo stesso odio e paura, un sole d'aprile, è peggio.

Il padre cavalca nella sera d'inverno con il figlio in braccio, senza in realtà speranza alcuna. Solo che è primavera. Non verrà mai più giorno, non verrà mai più estate, di così.

E allora, cosa puoi fare?

E allora, cazzo, si fotta Erlkoenig! Mi prenderà, mi prenderà, lo so, ma sarà lui a dovermi prendere, non sarò io a fermarmi ad aspettarlo.

La vita alla fine ti prende, sempre. Ma io, questa sera, scriverò una canzone, e la terrò un metro indietro, ancora per un po'.

1

Una volta sono stato a Genova. Per via dell'acquario, ma non era esattamente la giornata giusta. Quando le persone superano il terzo strato da terra, tipo che tu sei la pastafrolla alla base e non ti riesce di capire quanto generosa sia stata la cuoca sopra di te, tendo a sentirmi a disagio. Perciò mi sono scusato con tutti, e sono andato invece a far due passi nei vicoletti, lì vicino al mare.

Non è stato bello. Tutte queste case grigie, cinque, sei piani, e se guardi in alto si chiudono, tanto che i piccioni possono beccarsi da una grondaia all'altra, tanto che uno sperduto raggio di sole non troverebbe mai la strada per intrufolarsi lì in mezzo. Nè si capisce perchè lo vorrebbe fare.

Angoli, traverse, ogni dieci metri, tutte uguali, tutte grigie. L'uno accanto all'altro negozietti, bar, e gente. Gente ferma, appoggiata ai muri, gente di ogni sfumatura di colore, e tutti con quella postura che dice "sono disperato, ma non lo ammetterò mai". Con la postura aggressiva di chi non ti vuole aggredire, vuole solo dire che c'è anche lui, che esiste, anche se non lo vedi e non lo rivedrai mai più.

Io non ho mai visto i parcheggi di camper americani, li ho solo letti sui libri, ma il concetto mi pare simile. Cose che sono state progettate per viaggiare, e che sono ferme su quattro mattoni, da, beh, da fin quasi l'inizio della loro esistenza. Sembrano potersi muovere, ma loro sanno, e tu sai, che non si muoveranno mai più. Però _sembrano_ potersi muovere, e magari tanto basta a portare i giorni a sera. Dignità simulata, spalle larghe, e occhi vuoti.

In mezzo a tutto ciò, ho alzato lo sguardo, per caso. Sull'angolo in alto di una casa, una casa non meno triste delle altre (e di più sarebbe stato difficile), appena sotto la grondaia, c'era un mascherone. Un volto grottesco di pietra, appeso lì senza alcun senso apparente.

E mi è caduta addosso una tristezza infinita.

Il pensiero di qualcuno che _grida_ "io ci sono, ci sono perchè la mia casa è diversa, è migliore, è, cazzo, decorata", il pensiero di qualcuno che pensa di aver lasciato un qualche segno nel mondo perchè ha fatto qualcosa di brutto, assurdo, e completamente inutile, il pensiero di qualcuno che nessuno ricorda, ma che con il suo gesto futile pensava di poter essere _diverso_, mi ha messo una disperazione addosso con cui neppure il vaso di geranei morti (sul davanzale di due case dopo) poteva competere.

Essere nessuno, non lasciare segno, e non potersene fare una ragione.

La tristezza è una cosa, la disperazione è un'altra. E la disperazione a cui non ti rassegni, e di cui a volte neppure ti accorgi, è la cosa davvero più orribile.

Questo per le piccole cose.

Un po' sopra Bolzano, verso Nova Ponente. Imbocchi la val D'Ega. Una forra di pietra marrone, stretta. Un utero angoloso, fatto di spigoli cattivi, di svolte assurde, di linee spezzate. E sali.

Quando la roccia finisce, comincia la foresta. Su entrambi i lati, quasi verticale. Abeti severi, vecchi, scuri, neppure ostili, indifferenti. Due battaglioni di veterani che si guardano, stanchi e truci, e il gelido torrente che tintinna in mezzo. Come un confine. E sali.

E le rocce che spuntano dovunque nel bosco. A ricordarti che le ossa della terra sono poco profonde, lì, e che il verde imbronciato che vedi è una concessione fatta di malavoglia. Pietra dal cuore avaro. E sali.

E poi, dopo l'ultima curva, il mondo _si apre_.

Prati di sole, fin dove arriva l'occhio, un mare, un mare verde, dev'essere un mare perchè non c'è niente altro al mondo di così grande, terra profonda, dossi e colline, steccati di legno grezzo, qualche scoglio verde scuro d'abete, verde pallido di larice, verde rossiccio di acero, una manciata di fiori gialli di soffione che portano il sole a terra. Ma soprattutto i prati, e poi ancora i prati, e non c'è altro attorno. Sì, lontane, basse, bianche, le montagne che fan corona, che ti dicono che il mondo non è infinito. Che c'è un limite. Ma, dio, così lontano che non conta nulla. E sopra a tutto questo, il sole che si rovescia come una cascata sui soffioni, e sul mondo.

E in quel momento, e per un momento, il tuo cuore si apre, si spalancano le tue ali, e voli. Davvero.

E questo era per le stelle.