martedì 13 marzo 2012

19

E' primavera. Una strada di campagna, sull'altopiano, fra dossi e vallette. Una strada di ghiaia bianca. I soffioni spuntano fra le rodane dei trattori. E cammino, cammino. A volte, a tratti, il sole è feroce, scalda i capelli sulla nuca, e li devo scompigliare. Poi passo su un vecchio ponte in cemento, due metri sopra il ruscello, e lì l'aria dell'inverno morde ancora, senti che la terra, anche sotto il sole, ricorda il febbraio appena passato. E i giochi di luce fra le foglie nuove, ombre da calpestare, e i tratti d'asfalto consumato che si crepano come il sorriso di un vecchio. Profumi. Fiori di ciliegio selvatico, Prunus avium, credo, che cosa inutile il saperlo a fronte dell'incanto sottile che la sua fioritura spande dovunque. Salite, polmoni che faticano, quella cosa idiota di regolare il passo sul respiro, cosicchè più mi stanco più vado veloce, e discese, che mi vien da correre, da scivolare sui sassi che rotolano sotto le mie scarpe e rialzarmi ridendo. D'un tratto, improvviso, il forte odore di lievito del fungo di San Giorgio, ed eccoli lì, in fila ordinata lungo il bordo strada. Ne ho pestato uno, e mi dispiace, ma gli altri restano, non sono in caccia. E cammino, cammino. I prati attorno diventano bosco, poi tornano prati, poi rocce, a lato, un altro torrente, piccole trote, e di nuovo prati di sole di maggio.

E poi il sentiero muore.

Muore in un'esplosione di arcobaleni, in un'epifania di colori, muore, quel che c'è oltre non lo si può capire, non offre nessun appiglio al cervello. Tutto, lì, finisce, tutto il comprensibile finisce. Quello che va avanti è solo confusione. Grandiosa, ok, ma inconcepibile.

Seduto su un grosso molare di porfido appena sul ciglio dell'assurdo, questo signore dalla pelle tesa sulle ossa della faccia mi guarda con due occhi sbalorditi e mi dice: "Mi è scappato il sentiero."

Dio, ti prego, non esistere. Voglio, almeno, la dignità di averlo smarrito da solo, il sentiero.

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