lunedì 28 maggio 2012

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JFK. Dov’eri quando hanno sparato a JFK? Vero, vero, la gente a cui puoi rivolgere questa domanda si sta estinguendo. Ma io lo ricordo, dov’ero. Ero nel corridoio di una casa in affitto per le ferie, a Tressilla di Pinè. E chiedevo “Chi è morto? Quello simpatico?”. Perché ero piccolo, e a quei tempi la televisione era quel che era, e pur di vedere muoversi qualcosa nella scatola mi sciroppavo anche i telegiornali. E c’erano solo vecchi, nei telegiornali, eccezion fatta per quel tipo col sorriso simpatico. Lui, JFK, l’unico che abbia coscientemente rischiato l’estinzione del genere umano in una gagliarda manifestazione di machismo, lui che si scopava Marylin, ma io che cazzo ne sapevo, ero piccolo. JFK, l’eroe. Beh, era simpatico. Anche a me che non ne sapevo abbastanza da capire, anche a me che ancora non sapevo che l’avevamo scampata per un soffio, e che la mafia avrebbe ucciso il tipo col dito sul bottone, e che suo fratello aveva il dito sul suo, di bottone. Sorrideva, cazzo, sorrideva che sembrava vero.

Era l’anno che accendevamo fuochi, io e i miei amici. Rubavamo patate nei campi, raccoglievamo legna nel bosco, accendevamo i fuochi e cuocevamo le patate sotto la brace. Fuori bruciate e dentro crude. Era l’anno che mi si è attaccato un fiammifero (esistevano ancora i fiammiferi, nessuno aveva ancora pensato agli accendini usa e getta), mi si è attaccato un fiammifero acceso, dicevo, al dorso del medio della mano destra, ho ancora la cicatrice. Scrollavo la mano e non si staccava.

Era l’anno che mi son guadagnato il rispetto di tutta la combriccola facendo notare che non tutta la legna bruciava quando facevamo il fuoco, e che i rimasugli del fuoco precedente  potevano risparmiarci la raccolta di legna nel bosco.

Era l’anno che mia sorella è arrivata a casa con un pastore tedesco di quaranta chili con un collare di fil di ferro arrotolato dicendo qualcosa del tipo l’ho trascinato fino qui, posso tenerlo?

Solo che non era quell’anno lì.

JFK. E’ morto nel novembre del ’63. Ora, io avevo sei anni. Andavo alle elementari. Non è possibile che fossimo in ferie in novembre.  Mia sorella aveva tre anni. Non è possibile che fosse in giro da sola a  raccattare cani che pesavano quattro volte lei. La cicatrice sul dito c’è. Solo, non era quella volta lì.

Voglio dire, questo è la vita. Ricordi falsi. Non voglio guardare la data di morte di John Lennon. Io ricordo che era sotto Natale, e se non lo era, se io non ero nel posto in cui ricordo di essere stato a far le cose che ricordo che stavo facendo, beh, non voglio saperlo. E’ già complicato il presente, senza che mi si incasini il passato…

lunedì 14 maggio 2012

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Perché non è un viaggio. La vita non è un viaggio, un percorso attraverso le cose, un divenire e un far divenire. Non è passare fra terre o persone, non è accumulare ricordi e conoscenze, non è cambiare mano a mano, non è diventare migliori, o peggiori, o anche solo diversi. La vita non è qualcosa che succede attraversando il tempo. E’ sbattere le ali contro un vetro, è la corsa di un criceto sulla ruota. La vita è qualcosa che tu pensi succeda fuori, ma sei tu che la pensi fuori. Sei tu che pensi. Sei sempre fermo nello stesso fottuto punto, sei lì fermo, dentro i confini della tua testa, del tuo cervello, ti pensi  grande, piccolo, uguale, diverso, ti pensi correre o restare, ti pensi nel bosco a primavera o nei viali d’autunno,  ma è sempre la stessa roba, sempre lo stesso crepitio , oddio, bisbiglio, fra quel pugno di neuroni. Tutto succede in una stanza chiusa. Una stanza dove non c’è tempo, né colori, né profumi. La vita è una stanza chiusa, senza finestre, e il gioco è inventarsi il tempo che passa fingendo che le pareti non siano bianche, bianche come le ossa della scatola cranica. La vita, in sostanza, è una bugia che ci raccontiamo per cancellare la claustrofobia dell’essere rinchiusi, inevitabilmente, immodificabilmente, fra le pareti della nostra testa. La vita è claustrofobia negata, ecco cos’è. E ogni giorno è uguale, perché non ci sono, i giorni.

E però, epperò, il vento.  Non tanto, non solo il profumo del vento, ma la sua forza, quella che apre e divide la penne sulla punta delle ali, la forza che ti permette di giostrare, di girare… Ohi, si vola poco, dentro i confini di un cranio. Ma quel poco, magari, basta. Basta ad imbrogliarsi.

Le senti? Le senti  le penne, come frusciano nel vento?

Beh, non è vero. Non frusciano, e non c’è il vento, e non ci sono i giorni. E’ tutto grigio e fermo, e poi raccontatela, se vuoi. Lì nella scatola. L’importante è accontentarsi, dicono.   

mercoledì 2 maggio 2012

58


Dall’alto, da sinistra e dall’alto. Un cortile suburbano, cemento spaccato, erbacce, lamiera ondulata, muri di mattoni sguinciati come trapezi smilzi. Oh, io sono lì e sono sopra, in alto, a sinistra. La merda è in ginocchio, caviglie legate e polsi legati dietro la schiena, testa bassa. Luce del sole, poca, sole velato. Sul cemento spaccato.

UN CAZZO DI POMERIGGIO QUALSIASI, VA BENE? UN CAZZO DI SOLE QUALSIASI, CHE NON CONTA NIENTE!

Sono lì che lo prendo per i capelli grigi, con la sinistra - non li ha, i capelli, è pelato da sempre- no, li ha, mi servono per tenergli la testa-non li ha- CAZZO, VUOI COMANDARE AI SOGNI?-lo tengo, sono lì, tre ganci veloci, leggeri, di destro, tanto per cominciare. Lo tengo con la sinistra per i capelli grigi, radi, che non cada. Tre ganci fra la mascella e l’orecchio. Sono sopra, lo guardo, mi guardo, lascio i capelli e infilo il tirapugni, mi guardo dall’alto, da destra, mi guardo l’ottone sulle dita della mano come una processioni d’anelli nuziali. Giù, manrovescio di metallo sulle labbra. Sono giù. Non si fa .Un manrovescio col tirapugni? Ma è diverso, però,  creativo, come dire. Sangue comunque, non brutto. Ma soprattutto metallo sui denti. Il suono delizioso del metallo sui denti.

Torno su. Lascio i capelli. Aspetto. Li riprendo nella sinistra come si afferra il fiocco di un uovo di pasqua e carico, carico, CARICO IL DESTRO SUL BORDO DELLA MASCELLA E NEL MOMENTO STESSO LASCIO I CAPELLI.

La testa vola di lato, la vedo dall’alto, da sinistra, appena una fogliolina di sangue che vola, gracidare stridulo d’osso e denti, il corpo che si piega, un soddisfacente tonfo, tud, la testa che arriva a terra rimbalza e ricade, e sta ferma. NO, NON FERMA. MUGOLA, SI MUOVE, LE GAMBE SCALCIANO.

Sono su, lui scalcia. Carino.

C’è un platano, lì accanto. No, magari non proprio lì, non è il suo posto, in quell’angolo di suburbio, ma da qualche parte c’è, un platano, che pianta le sue radici nel mondo, in qualsiasi mondo, le pianta profonde e non si lascia smuovere. Puoi fingere che non ci sia, il platano, ma lui, detto fra noi, se ne fotte di quello che fingi. In qualunque cazzo di posto ti scarichi il tuo aereo, lì trovi il platano. Che è poi ciò che ti ricorda che non importa quale lingua tu parli, il platano parla la sua. Sempre la stessa.

Si fotta. Dicevamo che sono su, ma non dura molto. Sono su a sinistra, ma poi sono giù, e lui scalcia poco, e lo rialzo sulle ginocchia prendendolo per i capelli-SI’, CAZZO! I CAPELLI CHE NON CI SONO!-e sono uno, due, TRE, ganci destri alla tempia, ora. UNO-e sbaglio appena, l’ottone scivola sulla fronte, nuvola rossa, DUE-tempia piena, scricchiola, TRE, oh cazzo, oh cazzo, IMPLODE, e lascio i capelli, implode la tempia, con un suono, si fotta, quasi in sordina, uf, un suono del cazzo per una morte, ma va bene, questa volta la testa rimbalza, tud, scalcia, ma non conta un cazzo, il sangue, rosso,  HO TUTTO IL PUGNO SINISTRO PIENO DI CAPELLI GRIGI, CAPELLI CHE NON CI SONO MAI STATI. Va bene, va bene…

Va bene, va bene. Ma parlatene voi al platano, per favore. O parlatene alla morte stessa, se vi pare più sbrigativo. No, no, non che il platano sia la morte, il platano è quel che è. Il punto è che non mi ascolta. Ohi! Non so la lingua, va bene? VA BENE?