Dall’alto, da sinistra e dall’alto. Un cortile suburbano,
cemento spaccato, erbacce, lamiera ondulata, muri di mattoni sguinciati come
trapezi smilzi. Oh, io sono lì e sono sopra, in alto, a sinistra. La merda è in
ginocchio, caviglie legate e polsi legati dietro la schiena, testa bassa. Luce
del sole, poca, sole velato. Sul cemento spaccato.
UN CAZZO DI POMERIGGIO QUALSIASI, VA BENE? UN CAZZO DI SOLE
QUALSIASI, CHE NON CONTA NIENTE!
Sono lì che lo prendo per i capelli grigi, con la sinistra -
non li ha, i capelli, è pelato da sempre- no, li ha, mi servono per tenergli la
testa-non li ha- CAZZO, VUOI COMANDARE AI SOGNI?-lo tengo, sono lì, tre ganci
veloci, leggeri, di destro, tanto per cominciare. Lo tengo con la sinistra per
i capelli grigi, radi, che non cada. Tre ganci fra la mascella e l’orecchio.
Sono sopra, lo guardo, mi guardo, lascio i capelli e infilo il tirapugni, mi
guardo dall’alto, da destra, mi guardo l’ottone sulle dita della mano come una
processioni d’anelli nuziali. Giù, manrovescio di metallo sulle labbra. Sono
giù. Non si fa .Un manrovescio col tirapugni? Ma è diverso, però, creativo, come dire. Sangue comunque, non
brutto. Ma soprattutto metallo sui denti. Il suono delizioso del metallo sui
denti.
Torno su. Lascio i capelli. Aspetto. Li riprendo nella
sinistra come si afferra il fiocco di un uovo di pasqua e carico, carico,
CARICO IL DESTRO SUL BORDO DELLA MASCELLA E NEL MOMENTO STESSO LASCIO I
CAPELLI.
La testa vola di lato, la vedo dall’alto, da sinistra,
appena una fogliolina di sangue che vola, gracidare stridulo d’osso e denti, il
corpo che si piega, un soddisfacente tonfo, tud, la testa che arriva a terra
rimbalza e ricade, e sta ferma. NO, NON FERMA. MUGOLA, SI MUOVE, LE GAMBE
SCALCIANO.
Sono su, lui scalcia. Carino.
C’è un platano, lì accanto. No, magari non proprio lì, non è
il suo posto, in quell’angolo di suburbio, ma da qualche parte c’è, un platano,
che pianta le sue radici nel mondo, in qualsiasi mondo, le pianta profonde e
non si lascia smuovere. Puoi fingere che non ci sia, il platano, ma lui, detto
fra noi, se ne fotte di quello che fingi. In qualunque cazzo di posto ti
scarichi il tuo aereo, lì trovi il platano. Che è poi ciò che ti ricorda che
non importa quale lingua tu parli, il platano parla la sua. Sempre la stessa.
Si fotta. Dicevamo che sono su, ma non dura molto. Sono su a
sinistra, ma poi sono giù, e lui scalcia poco, e lo rialzo sulle ginocchia
prendendolo per i capelli-SI’, CAZZO! I CAPELLI CHE NON CI SONO!-e sono uno,
due, TRE, ganci destri alla tempia, ora. UNO-e sbaglio appena, l’ottone scivola
sulla fronte, nuvola rossa, DUE-tempia piena, scricchiola, TRE, oh cazzo, oh
cazzo, IMPLODE, e lascio i capelli, implode la tempia, con un suono, si fotta,
quasi in sordina, uf, un suono del cazzo per una morte, ma va bene, questa
volta la testa rimbalza, tud, scalcia, ma non conta un cazzo, il sangue,
rosso, HO TUTTO IL PUGNO SINISTRO PIENO
DI CAPELLI GRIGI, CAPELLI CHE NON CI SONO MAI STATI. Va bene, va bene…
Va bene, va bene. Ma parlatene voi al platano, per favore. O
parlatene alla morte stessa, se vi pare più sbrigativo. No, no, non che il
platano sia la morte, il platano è quel che è. Il punto è che non mi ascolta.
Ohi! Non so la lingua, va bene? VA BENE?
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