mercoledì 2 maggio 2012

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Dall’alto, da sinistra e dall’alto. Un cortile suburbano, cemento spaccato, erbacce, lamiera ondulata, muri di mattoni sguinciati come trapezi smilzi. Oh, io sono lì e sono sopra, in alto, a sinistra. La merda è in ginocchio, caviglie legate e polsi legati dietro la schiena, testa bassa. Luce del sole, poca, sole velato. Sul cemento spaccato.

UN CAZZO DI POMERIGGIO QUALSIASI, VA BENE? UN CAZZO DI SOLE QUALSIASI, CHE NON CONTA NIENTE!

Sono lì che lo prendo per i capelli grigi, con la sinistra - non li ha, i capelli, è pelato da sempre- no, li ha, mi servono per tenergli la testa-non li ha- CAZZO, VUOI COMANDARE AI SOGNI?-lo tengo, sono lì, tre ganci veloci, leggeri, di destro, tanto per cominciare. Lo tengo con la sinistra per i capelli grigi, radi, che non cada. Tre ganci fra la mascella e l’orecchio. Sono sopra, lo guardo, mi guardo, lascio i capelli e infilo il tirapugni, mi guardo dall’alto, da destra, mi guardo l’ottone sulle dita della mano come una processioni d’anelli nuziali. Giù, manrovescio di metallo sulle labbra. Sono giù. Non si fa .Un manrovescio col tirapugni? Ma è diverso, però,  creativo, come dire. Sangue comunque, non brutto. Ma soprattutto metallo sui denti. Il suono delizioso del metallo sui denti.

Torno su. Lascio i capelli. Aspetto. Li riprendo nella sinistra come si afferra il fiocco di un uovo di pasqua e carico, carico, CARICO IL DESTRO SUL BORDO DELLA MASCELLA E NEL MOMENTO STESSO LASCIO I CAPELLI.

La testa vola di lato, la vedo dall’alto, da sinistra, appena una fogliolina di sangue che vola, gracidare stridulo d’osso e denti, il corpo che si piega, un soddisfacente tonfo, tud, la testa che arriva a terra rimbalza e ricade, e sta ferma. NO, NON FERMA. MUGOLA, SI MUOVE, LE GAMBE SCALCIANO.

Sono su, lui scalcia. Carino.

C’è un platano, lì accanto. No, magari non proprio lì, non è il suo posto, in quell’angolo di suburbio, ma da qualche parte c’è, un platano, che pianta le sue radici nel mondo, in qualsiasi mondo, le pianta profonde e non si lascia smuovere. Puoi fingere che non ci sia, il platano, ma lui, detto fra noi, se ne fotte di quello che fingi. In qualunque cazzo di posto ti scarichi il tuo aereo, lì trovi il platano. Che è poi ciò che ti ricorda che non importa quale lingua tu parli, il platano parla la sua. Sempre la stessa.

Si fotta. Dicevamo che sono su, ma non dura molto. Sono su a sinistra, ma poi sono giù, e lui scalcia poco, e lo rialzo sulle ginocchia prendendolo per i capelli-SI’, CAZZO! I CAPELLI CHE NON CI SONO!-e sono uno, due, TRE, ganci destri alla tempia, ora. UNO-e sbaglio appena, l’ottone scivola sulla fronte, nuvola rossa, DUE-tempia piena, scricchiola, TRE, oh cazzo, oh cazzo, IMPLODE, e lascio i capelli, implode la tempia, con un suono, si fotta, quasi in sordina, uf, un suono del cazzo per una morte, ma va bene, questa volta la testa rimbalza, tud, scalcia, ma non conta un cazzo, il sangue, rosso,  HO TUTTO IL PUGNO SINISTRO PIENO DI CAPELLI GRIGI, CAPELLI CHE NON CI SONO MAI STATI. Va bene, va bene…

Va bene, va bene. Ma parlatene voi al platano, per favore. O parlatene alla morte stessa, se vi pare più sbrigativo. No, no, non che il platano sia la morte, il platano è quel che è. Il punto è che non mi ascolta. Ohi! Non so la lingua, va bene? VA BENE?

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